Scomode Verità recensione film di Mike Leigh con Marianne Jean-Baptiste, Michele Austin, David Webber e Tuwaine Barrett [Anteprima]
di Joaldo N’kombo
L’ultima volta in cui Marianne Jean-Baptiste e Mike Leigh hanno collaborato insieme sul grande schermo è stato per il film vincitore della Palma d’Oro Secrets and lies (1996). In questa pellicola l’attrice interpretava Hortense, una giovane donna nera di 27 anni a cui, morta da poco la madre adottiva, viene la curiosità di incontrare la madre biologica, interpretata magistralmente da Brenda Blethyn – una quarantenne svampita, operaia, melanconica e, soprattutto, bianca.
Quasi trent’anni dopo Secret and Lies, arriva Scomode Verità (Hard truths), in cui Marianne Jean-Baptiste, diretta nuovamente da Leigh, presta il volto alla protagonista Pansy, una figura materna misantropa, paranoica, lamentosa e depressa a cui è morta la madre da 5 anni. La donna è sostanzialmente insoddisfatta di tutto e tutti: non sa come essere felice e vani sono i tentativi della sorella più giovane che, con la sua giovialità, tenta di trasmetterle un po’ di dolcezza.
Come nel film del ‘96, Mike Leigh tratta di un dramma famigliare che ha per tema portante la comunicazione tra individui. Il regista inglese costruisce un lungometraggio di 97 minuti che, mano a mano, si sbroglia dalle sue vesti di commedia per rivelarsi un dramma vero e proprio fatto di tensioni accumulate e dolori repressi. Pansy, a ogni singola interazione, ringhia feroce verso il prossimo lamentando una presunta scortesia nei suoi confronti e Leigh, tramite queste situazioni, riesce ad approcciare facilmente il comico riuscendo però a rimanere sempre su un filo sospeso nel baratro, pronto a far scivolare il film verso il tragico.
Il cambio di tono è costantemente dietro l’angolo e questo è possibile proprio perché i personaggi di Scomode Verità portano – chi più chi meno – un bagaglio di dolore represso non indifferente, alimentato da incomprensioni e comunicazioni mancate. Pansy, suo marito e suo figlio rappresentano sicuramente il fulcro di questo discorso fatto di non detti; il loro è un rapporto che, se a volte riesce a suscitare una risata, diventa addirittura fisicamente doloroso da guardare, non perché ci siano elementi grafici o espliciti, ma per le parole dette, per gli sguardi e i silenzi. Ed è il pregio più grande che Leigh riesce a raggiungere con questo film, ovvero quello di trattare una storia priva di elementi sensazionalistici ma in grado di acquisire delle vette di tensione incredibili, scavando con furore e violenza dentro la psiche dei suoi personaggi rendendoli credibili e straordinariamente veri.
Stesso discorso per le immagini e la regia che, priva di manierismo, riesce a pulsare con vigore tramite una messa in scena sobria, organizzata su delle composizioni che portano al centro dello spazio gli attori, in pieno spirito teatrale.
D’altronde, è un film che poggia interamente sui suoi personaggi: l’azione drammaturgica, più che nei gesti, risiede nei dialoghi. Come spesso accade nei testi teatrali, i grandi eventi sono già avvenuti fuori scena, e lo spettatore incontra queste personalità in un momento in cui sono ormai logore, incapaci di esorcizzare il proprio male o di rinunciare al proprio dolore.
Marianne Jean-Baptiste si fa portavoce di questo messaggio interpretando una Pansy che è indubbiamente il destinatario principale di tale discorso che, in ogni caso, si trattiene sempre dal giudicare, limitandosi a esporre le sue hard truths.
Con questo film Leigh sembra che abbia deciso di riprendere molte delle tematiche presenti in Secrets and lies, proponendole però con un twist diverso, più amaro e ambiguo. Hortense e Pansy paiono essere quasi due facce della stessa medaglia, nessuna vale più dell’altra, coesistono rappresentando una dualità profondamente umana.