La classe operaia va in paradiso

La classe operaia va in paradiso recensione film di Elio Petri [Restiamo Umani]

La classe operaia va in paradiso recensione film di Elio Petri con Gianmaria Volonté, Mariangela Melato, Gino Pernice e Salvo Randone

Il 31enne Ludovico Massa, detto Lulù (Gian Maria Volonté), separato e convivente con Lidia (un’ottima Mariangela Melato), lavora da quindici anni in fabbrica. Il proprio stacanovismo e la dedizione spasmodica al cottimo lo rendono inviso ai propri colleghi, mentre ne fanno un modello di comportamento per i padroni. Un incidente sul lavoro gli farà aprire gli occhi e lo porterà alla ribellione. Il risultato sarà tutt’altro che incoraggiante.

La classe operaia va in paradiso: un’accoglienza di dissensi, polemiche e ostracismo

Corre l’anno 1971 quando il genio di Elio Petri scaraventa nella stagione calda delle lotte operaie, delle mobilitazioni sociali e dei movimenti studenteschi il suo La classe operaia va in paradiso. Ed è subito caos. Agli scontati dissensi da destra e centro, si uniscono quelli da sinistra: gli studenti sono descritti come astratti e inconsistenti, i sindacati come avvitati in strategie contorte. ‘È troppo‘: proclama l’intellighenzia. E, allora, via accuse d’ogni genere, persino, richieste di messa al rogo.
Ma al marxista libero e indipendente Elio Petri le polemiche non interessano. In fondo, le ha persino previste, consapevole che il suo cinema non è fatto per piacere ai palati fini, ma per provocare nelle persone comuni una riflessione sulla realtà e sulle dinamiche che la caratterizzano. D’altronde è il suo dichiarato manifesto:

Il cinema non è per un’élite, ma per le masse. Parlare ad un’élite di intellettuali è come non parlare a nessuno. Non credo si possa fare una rivoluzione col cinema. Io credo in un processo dialettico che debba cominciare tra le grandi masse attraverso i film e ogni altro mezzo possibile.
(Elio Petri)

Dunque, nessun ammiccamento ideologico, nessuna captatio benevolentiae. Elio Petri è e vuol restare fedele al suo cinema di denuncia senza guardare in faccia a nessuno, ostinato sino alle estreme conseguenze a raccontare quel che accade, quel che vede. D’altra parte, sarà il grande Leonardo Sciascia ad attestare con una frase concisamente definitiva il suo rifiuto a qualsiasi compromesso: “Elio Petri non scherza”.
Pagherà questa sua determinazione con l’ostracismo: nessuna mediazione, nessun imbellettamento: la verità del regista romano è troppa, e perciò fa male.

Gianmaria Volonté
Gianmaria Volonté
Gianmaria Volonté e Salvo Rondone
Gianmaria Volonté e Salvo Rondone

La nevrosi del lavoro

Fa male anche questo La classe operaia va in paradiso, secondo capitolo, tra Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La proprietà non è più un furto (1973), della cosiddetta “trilogia della nevrosi”. È la nevrosi del lavoro che qui entra in scena per mezzo del suo protagonista Lulù, lacerato, scisso, alienato. La sua dedizione al lavoro deborda nel servilismo. Lulù è ossessionato dai ritmi e dai rumori della fabbrica – ottimamente risaltati dal montaggio di Ruggero Mastroianni e dalle musiche di Ennio Morricone – avvinghiato alla macchina in un contorto rapporto simbiotico, al punto da vedere se stesso come tale: “L’individuo lavora per mangiare. Il mangiare viene giù. E qui c’è una macchina che schiaccia ed è pronto per l’uscita: uguale che in fabbrica”.

La fabbrica, per Lulù, è misura dell’intera realtà, metro di valutazione di oggetti e affetti. E, quando non c’è questa a occupare i suoi pensieri, arrivano la televisione, le disquisizioni calcistiche e le mille inutili cianfrusaglie con cui riempie casa nel tentativo di rincorrere un consumismo consolatorio e inutile. È, forse, il suo modo d’illudersi d’essere felice; o, più semplicemente, di anestetizzare quel dolore che pare traboccare dappertutto: l’ulcera, la fronte sudata, lo sguardo allucinato, la voce perennemente in bilico tra urlo e pianto.
Eppure Lulù non sembra essere solo alienato. Il suo dedicarsi al lavoro in modo ossessivo, piuttosto che il risultato d’uno straniamento, dà la sensazione d’essere la conseguenza di una consapevole rassegnazione al ruolo di vinto a cui non resta, per sopravvivere, che indossare i panni del servo del padrone.

La classe operaia va in paradiso recensione film di Elio Petri
La classe operaia va in paradiso di Elio Petri con Gianmaria Volonté

Lulù: una maschera tragica

Lulù, dunque, non è che una vittima predestinata; una maschera tragica che, grazie alla splendida interpretazione di Volonté, risalta nel suo aspetto al contempo tormentato e grottesco. Egli è a suo modo disperato: sente di non avere alternative. Lo grida in faccia ai suoi colleghi sindacalisti (“Io non ho niente! Io ho la forza lavoro, solo quello!”), rei ai suoi occhi di mettere in pericolo quel fragile equilibrio che gli garantisce la sopravvivenza. Ma soprattutto è consapevole che la sua condizione rischia di portarlo alla follia, esattamente come accaduto al vecchio collega Militina (un monumentale Salvo Randone), ora rinchiuso in manicomio, al quale, tuttavia, Petri riserva significativamente le parole più lucide dell’intero film:

Lulù, è il denaro. Comincia tutto di là. Noi facciamo parte dello stesso giro, padrone e schiavi, dello stesso giro. L’argent, i soldi. Noi diventiamo matti perché ce ne abbiamo pochi, loro perché ce ne hanno troppi. E così, in questo inferno, su questo pianeta pieno di ospedali, manicomi, cimiteri, di fabbriche, di caserme e di autobus, il cervello, a poco a poco, se ne scappa, sciopera…
(Salvo Randone in La classe operaia va in paradiso)

Sì, perché – sembra suggerire amaramente l’indimenticato regista romano – per quelli come Lulù la sola via di fuga non è la ribellione (quella del nostro protagonista è infatti destinata al misero fallimento) ma la pazzia, unico percorso d’uscita dall’esiziale alternativa tra l’inferno della disoccupazione e quello di un lavoro trasformatosi in strumento di ricatto e sfruttamento. Quanto al paradiso, al nostro protagonista e ai suoi compagni non resta che fantasticarlo in una visione a metà tra sogno e delirio.
Una visione fatta di disperazione e sottomissione.

Gianmaria Volonté e Salvo Rondone
Salvo Rondone e Gianmaria Volonté

Un film dal valore universale e definitivo

Nonostante gli anni, al di là delle polemiche e del contesto storico in cui il racconto è ambientato, La classe operaia va in paradiso conserva ancora oggi un valore drammaticamente attuale. Infatti, dopo una breve stagione di tutele e diritti in favore della classe lavoratrice, il tema del lavoro come elemento di sperequazione e di ricatto è di nuovo al centro del dibattito sociale: l’abuso di strumenti contrattuali precarizzanti, la crisi economico-finanziaria e le delocalizzazioni ridisegnano tristemente, oggi come ieri, un quadro desolante all’interno del quale il lavoro, lungi dall’essere strumento di emancipazione, assume sempre più la forma di un beneficium principis.

Dunque, La classe operaia va in paradiso non è che l’ennesima dimostrazione del genio visionario e delle capacità profetiche di Petri. Quelle stesse che consentono di incarnare plasticamente il nostro Lulù nei precari di oggi e di far sì che questo film (vincitore ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi della Palma d’Oro al Festival di Cannes 1972) non si limiti a rappresentare uno spaccato storico della classe operaia italiana dei primi anni ’70, ma sia ormai avviato a ricoprire il più prestigioso ruolo di racconto dal valore universale e definitivo. Un’autentica pietra miliare.

Sintesi

Vincitore ex aequo della Palma d'Oro al Festival di Cannes, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri è un film dal valore universale: un ritratto tragico del lavoro in fabbrica, emblema dello sfruttamento della classe lavoratrice. Ennesima dimostrazione del genio visionario e delle capacità profetiche di Petri, l'opera è un'autentica pietra miliare del cinema italiano.

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