Honey Boy recensione del film di Alma Har’el con Shia LaBeouf, Lucas Hedges, Noah Jupe, Clifton Collins Jr., FKA twigs e Byron Bowers
L’attore Shia LaBeouf (Transformers, Nymphomaniac) durante un periodo di riabilitazione per problemi di alcol e droga, si trova a dover scrivere della propria infanzia travagliata e del rapporto con il padre, anch’esso alcolizzato. Questo è sia il cenno biografico da cui nascerà Honey Boy, sia la trama del film stesso, che si presenta quindi come un’opera dalla forte impronta metacinematografica, ma mai fine a se stessa; se da un lato ciò diventa il modo per lo sceneggiatore LaBeouf di esorcizzare momenti delicati della sua vita attraverso la forma testuale che più gli è abituale in quanto attore (la sceneggiatura appunto), dall’altro il film si inserisce coerentemente nel corpus delle opere della regista indipendente Alma Har’el, che già nel precedente LoveTrue avvicinava il film a una performance terapeutica.
In questo senso è cruciale la decisione della regista di far interpretare il ruolo del padre a Shia LaBeouf stesso, solo in questo modo infatti, attraverso la recitazione (dove inizialmente era stata la scrittura), può riconoscere in sè alcuni comportamenti tossici ereditati dal padre e nel finale abbandonarli nel riconciliarsi con lui.
Honey Boy si configura quindi come una riflessione sulla recitazione e il rapporto genitore- figlio è il contrappeso da cui scaturiscono le ambiguità più interessanti (il figlio riconosce che è il padre che ha permesso la sua carriera da attore): il padre è il manager del protagonista e anche se spesso svolge il suo ruolo in modo altalenante, lo segue sui set e lo aiuta ad esercitarsi (al contrario di una madre presente solo telefonicamente); tuttavia il fatto che il genitore dipenda economicamente dal figlio è spesso causa di conflitto.
Si può dire che la volontà di recitare nasca nel protagonista dal desiderio di emulare un padre gigionesco nella vita (lo vediamo all’inizio del film intento a intrattenere una donna sul set) e nel lavoro (è infatti un clown da rodeo); ma qui si inserisce un ulteriore elemento di instabilità: se infatti il figlio recitando ottiene un certo prestigio (viene riconosciuto per strada), il padre resta un buffone e ciò spesso gli causa un senso di inadeguatezza nei confronti del figlio che accusa di credersi meglio di quello che è.
Infine, gli abusi paterni diventano il bagaglio emotivo da cui attinge il protagonista quando recita e contribuiscono al suo talento.
La recitazione diventa anche l’unico strumento che ha il protagonista per rapportarsi con il proprio genitore, da una parte filtra la violenza degli scambi verbali interpretando una parte e riducendoli quindi a finzione, dall’altra replica gli schemi di famiglie ideali che è abituato a interpretare sui set all’interno del suo contesto famigliare disfunzionale.