Concrete Cowboy recensione film di Ricky Staub con Idris Elba, Caleb McLaughlin, Lorraine Toussaint, Jharrel Jerome, Ivannah-Mercedes e Method Man
Le stalle di Fletcher Street: senti l’odore quando ci sei vicino.
(Lorraine Toussaint in Concrete Cowboy)
Il direttore della fotografia Minka Farthing-Kohl avvolge tra luci ramate la terra arida del suolo, i muri in pietra, i lampioni di Fletcher Street, le pareti di legno delle case popolari del quartiere, le lampade da interni e le stoffe dei divani, sotto il sole che cattura il ghetto in un’atmosfera magnetica, rappresentato attraverso un’illuminazione declinata dalle tonalità del manto del cavallo che simboleggia la presa di coscienza del giovane protagonista Cole (Caleb McLaughlin).
Prodotto dal due volte candidato all’Oscar Lee Daniels (Precious, The United States vs. Billie Holiday) e diretto da Ricky Staub, Concrete Cowboy ci immerge in un ghetto di Philadelphia dalla storia antica, legata alle stalle, ai cavalli e ai loro cowboy, un racconto di emarginazione, povertà ed emancipazione ritratto attraverso le inquadrature strette sui volti dei protagonisti, matidi di sudore sotto l’estate afosa, tra baracche desolanti, incuria, sporcizia e disordine, con il suo protagonista smarrito, “abbandonato” dalla madre, che trascina senza meta i due sacchi di spazzatura pieni di vestiti che rappresentano la sua vita.
Qui non si domano solo i cavalli.
(Ivannah-Mercedes in Concrete Cowboy)
Tratto dal romanzo Ghetto Cowboy di Gregory Neri, Concrete Cowboy ci scaraventa indietro nel tempo, in un mondo arcaico che apparentemente non esiste più, soppiantato dall’urbanizzazione, dallo sviluppo tecnologico e dall’evoluzione dei trasporti. Eppure a Fletcher Street, nel centro di Philadelphia, l’equitazione urbana non è ancora scomparsa, simbolo non soltanto di una grande passione bensì di un inossidabile stile di vita, quello dei cowboy alla ricerca di scuderie permanenti per tramandare le proprie tradizioni, che diventano centri di attrazione per tutti quei giovani che non trovano un posto e che, attraverso l’instradamento a profondi principi e al lavoro sodo, riescono a rigare dritto e a non abbandonarsi al crimine che “non rende migliori“.
Il protagonista Cole è un ragazzo irrequieto, uno spirito libero che ne “deve ancora mangiare parecchio di letame” prima di crescere, proprio come lo era da giovane il padre Harp (Idris Elba) che l’ha abbandonato, ex detenuto evaso dal carcere e poi riacciuffato, venduto dalla stessa compagna e madre di Cole, Amahle (Liz Priestly).
Un cavallo non è fatto per essere dominato.
I cavalli sono liberi, l’unico modo per riuscire a raggiungere il loro vero spirito, la loro natura, è l’amore.
(Lorraine Toussaint in Concrete Cowboy)
Abbandonato stavolta dalla madre sull’uscio del padre a Philadelphia in un lungo viaggio di sola andata da Detroit, Cole sarà costretto a farsi le ossa e a scegliere la sua strada, riscoprendo un impensabile legame con il suo retaggio di cowboy – potente la presa di coscienza a tu per tu con l’imponente e temibile muso dell’indomabile Boe – e preferire un cammino di crescita in salita alla facile discesa verso lo spaccio e il crimine, scelta intrapresa dall’amico d’infanzia Smush (Jharrel Jerome), eppure anch’egli cowboy che in qualche modo vuole conservare e rinnovare la tradizione della sua gente, intento a costruire il suo “treno” per fuggire finalmente da quella desolazione.
I cowboy di Fletcher Street si riuniscono ogni sera attorno al fuoco a ricordare il passato davanti alle loro stalle che stanno cadendo a pezzi, immobili nello spazio e nel tempo, indifferenti all’urbanizzazione che sta portando via ogni luogo per i loro cavalli e la loro gente, rifiutandosi di cercare una nuova casa, avendola già trovata sul dorso dei loro cavalli e nel profondo senso di famiglia che li unisce, sempre pronti a cavalcare insieme.
L’unica casa che ho conosciuto è il dorso di un cavallo.
(Idris Elba in Concrete Cowboy)
Sbiancati e cancellati dai libri di storia si definiscono i protagonisti di Concrete Cowboy, affascinante storia dal sapore antico che non denuncia soltanto i pericoli del progresso nel cancellare le nostre tradizioni, ma mette anche in scena una toccante storia di formazione attraverso il rapporto burrascoso tra un figlio in difficoltà e un padre che sembra preferirgli quei “maledetti cavalli”.
Presagendogli un futuro difficile, il padre ne segna il destino alla nascita chiamandolo Coltrane (Cole è il diminutivo), emozionante riferimento a quel giovane che, ricevuto in dono un sassofono dalla madre, sarebbe diventato “l’uomo più grande ce l’abbia fatta senza un padre“: uno dei più grandi sassofonisti della storia del jazz, John Coltrane.