Gli orsi non esistono

Gli orsi non esistono recensione film di Jafar Panahi [Venezia 79]

Gli orsi non esistono recensione film di Jafar Panahi con Jafar Panahi, Mina Kavani, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri, Bakhtiar PanjeiNarjes Delaram

La rabbia di Jafar Panahi

È impossibile recensire Gli orsi non esistono soprassedendo su questioni politiche e sociali che non hanno a che fare con il cinema ma che puntualmente sfondano il muro della fiction ed entrano nei film di Jafar Panahi. Impossibile ignorare quella sedia vuota in conferenza stampa a Venezia 79 (dove il film è stato presentato), impossibile dimenticare che il cineasta ha trascorso la prima mondiale del suo film in un carcere iraniano.

Da anni impossibilitato a lasciare il proprio paese e costretto a operare come regista in condizioni di semi-clandestinità, Jafar Panahi doveva essere in concorso a tutti i costi con il suo nuovo film, per le ragioni squisitamente non cinematografiche ma fondamentali di cui sopra. Anche con un film di fortuna avrebbe trovato il suo posto: con una pellicola compatta e potente come Gli orsi non esistono rischia di finire in Palmares, presentando vero cinema e un grande film. Una pellicola che dimostra come il talento e la creatività sconfinata di questo grande autore del cinema iraniano abbiano ancora una volta saputo trasformare le mille difficoltà e i tanti pericoli per tirare fuori un’ottima prova di cinema.

Jafar Panahi sul set
Jafar Panahi sul set (Credits: JP Production)

Dopo Taxi Teheran e Tre volti, girati in condizioni similmente complicate, qualcosa però nel cinema del regista già Orso d’Oro e Leone d’Oro è cambiato. Persino in una visione possibilista e speranzosa come la sua si fa strada un un oscuro presagio, un pessimismo cosmico. La forma filmica e narrativa torna a farsi complessa, incredibilmente stratificata, dopo due pellicole il cui risultato era stato fortemente limitato dalla forma utilizzata per guidarle, che le relegava per buona parte nell’abitacolo di una macchina.

Costretto a diventare parte del suo stesso cinema e protagonista ricorrente delle sue pellicole in un ruolo liminare tra regista, videomaker e personaggio, Panahi qui torna a interpretare se stesso e all’interno della struttura meta e delle bizzarre economie del suo film, avvertiamo per la prima volta la sua stanchezza, la sua rabbia per un paese che ama e che per la prima volta ammette di pensare di lasciare.

Gli orsi non esistono recensione film di Jafar Panahi
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi alla Mostra del Cinema di Venezia 2022 (Credits: JP Production)

Gli orsi non esistono è diviso tra Teheran e Jaban, un villaggio nella campagna iraniana, a pochi chilometri dal confine con la Turchia. Sono due le meta-storie in cui la finzione racconta una realtà che diventa a sua volta finzione. Una linea narrativa è quella di Zara e Bakhtiar, i due attori che interpretano i protagonisti nel film che si sta girando durante Gli orsi non esistono. Nel corso del film scopriamo che Panahi sta tentando sostanzialmente di documentare il loro tentativo di fuga in Europa, utilizzando passaporti falsi e presentandoli quindi come persone vere.

Le riprese del film nel film le guida a distanza Jafar Panahi, rifugiatosi per motivi non esplicitati a Jaban. Qui la Guardia Nazionale e il suo interesse morboso per il regista sembrano lontanissimi, ma le campagne iraniane hanno altri problemi: Panahi racconta il contrasto tra gente di città perseguitata dalle istituzioni e gente di campagna sotto il gioco di tradizioni che esacerbano conflitti anche quando tentano di pacificarli.

Jafar Panahi
Jafar Panahi (Credits: JP Production)

A un certo punto del film un uomo convince Jafar a seguirlo a un piccolo caffè dicendogli che ci sono degli orsi sulla strada: sarà lui stesso a smentire questa affermazione, dicendo che, come da titolo, non esistono. Invisibili ma invece tangibili sono i trafficanti di esseri umani, che uccidono chiunque tenti di varcare il confine turco senza passare per i loro altissimi compensi. Per questo le autorità non sono presenti al confine con la Turchia: la tradizione e i trafficanti costituiscono già un filtro sufficiente al desiderio di fuga.

La scrittura del film è complessa e in continua evoluzione, con personaggi che entrano ed escono dalla meta storia del film che Panahi sta girando durante il film. La storia viene poi postulata come vera (una sorta di documentario che testimonia il tentativo di fuga di due perseguitati dal regime), ma sappiamo che in realtà sono degli attori a fingere di interpretare dissidenti che si fingono attori per sfuggire dal paese. La regia, anche se con limiti evidenti, è capace persino di un paio di virtuosismi e ci immerge in un approccio naturalista in cui talvolta dimentichiamo che quando Panahi finge di fare riprese amatoriali, non assistiamo a una scena reale, ma a una messa in scena con un cameraman che sta girando.

Sintesi

Finzione e finta realtà si mescolano in un finale cupissimo, in cui ad essere vera è soprattutto la rabbia di Panahi, che non riesce stavolta a nascondere dentro il suo cinema così meta e così complesso la disperazione crescente di un cineasta, un uomo e un iraniano che teme il peggio, per sé e per la nazione.

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