Rambo: Last Blood recensione del film di Adrian Grunberg con Sylvester Stallone, Paz Vega, Yvette Monreal, Sergio Peris-Mencheta e Óscar Jaenada
Può il 73enne Sylvester Stallone tornare a vestire i panni del soldato perfetto? È la domanda che molti si sono fatti dopo l’annuncio di Rambo: Last Blood, quinto capitolo della saga. Ma, si sa, Sly ama le sfide e ancora una volta è pronto a sorprendere il pubblico, tant’è che il film è stato anche presentato allo scorso festival di Cannes.
Sono ormai passati i tempi del Vietnam e delle guerre e Rambo si è ritirato a vita privata in Arizona gestendo il vecchio ranch del padre. Stallone da sempre ci ha abituati ad una vena autobiografica nei suoi due personaggi più famosi – l’altro è naturalmente Rocky – ed ora che è arrivato all’età della saggezza interpreta un Rambo più assennato ed umano; dopo quattro capitoli molto più tendenti all’action, Last Blood esplora anche la mente del reduce di guerra.
John Rambo è ancora il duro che abbiamo imparato a conoscere, ma quel carattere così spigoloso col tempo si è un po’ ammorbidito dimostrandogli che anche lui ha bisogno di affetto e di calore umano: non a caso stavolta è lui ad essere salvato, moralmente e fisicamente, da una donna. È proprio questo uno dei temi centrali di Rambo: Last Blood, scopriamo che la giovane ed innocente Gabrielle (Yvette Monreal), ospitata nel ranch, è riuscita a far nascere in lui uno spiraglio di positività, ed ora che è lei ad essere in pericolo viene fuori l’istinto protettivo di Rambo, che non vuole perdere l’unica persona a lui cara.
Adrian Grunberg alla regia e la coppia Sylvester Stallone / Matthew Cirulnick alla sceneggiatura riescono a mettere in scena i drammi del protagonista senza risultare banali, sia attraverso il rapporto paterno con Gabrielle sia attraverso la scelta visiva dei tunnel: Rambo ha costruito dei cunicoli sotterranei che rappresentano la sua vera safe zone. Se in superficie la vita scorre normalmente, è in quei tunnel sporchi e bui che scorgiamo l’anima irrimediabilmente corrotta del personaggio. Sottoterra troviamo i ricordi del Vietnam e rivediamo quell’aspetto un po’ animalesco che il nostro protagonista ha sempre portato con sé, “non sono cambiato, cerco di contenermi” afferma Rambo in un passaggio chiave di Last Blood.
Quel contenimento però non riesce a limitare la rabbia del protagonista che quando sta per perdere l’unico barlume di speranza torna ad essere la spietata macchina da guerra che tutti conosciamo. Ed ecco che nella seconda parte della pellicola l’azione esplode: sparatorie, accoltellamenti, combattimenti a mani nude, ce n’è per tutti e Rambo conferma di non aver minimamente dimenticato come si uccide. L’adrenalina è alta e le scene action non tradiscono le aspettative, nonostante alcune trovate forse un po’ troppo anni ’80 che viste con gli occhi di oggi risultano un po’ datate; il regista inoltre non lascia nulla all’immaginazione mettendo in scena alcune sequenze che sfiorano lo splatter e che lo rendono il film il più crudo della saga.
Rambo: Last Blood fin dal titolo si lega al primo capitolo (che in originale si chiama First Blood) e anche questa volta la guerra è personale, non più contro una società che lo ha dimenticato ma contro la criminalità messicana. È una battaglia all’ultimo sangue in cui un uomo accecato dall’odio tira fuori il suo animo bestiale: Stallone dichiara di non essere interessato a raccontare i contrasti attuali tra Stati Uniti e Messico e di fatto non c’è nessun sottotesto politico, cosa che invece era presente nel secondo e nel terzo capitolo della saga e che rappresentava il difetto maggiore di quei film.
Rambo: Last Blood non nasconde la sua anima dichiaratamente action e soddisfa il pubblico portando avanti la saga quando ormai sembrava morta. Nonostante l’età, Stallone non perde un colpo e riconferma il suo feeling con questo ruolo attraverso un’interpretazione dinamica ed avvincente che continua a tenere vivo il suo mito.
Andrea P.