Il Principe di Roma recensione film di Edoardo Falcone con Marco Giallini, Sergio Rubini, Denise Tantucci, Filippo Timi e Giuseppe Battiston
Con Il Principe di Roma, selezionato dalla Festa del Cinema di Roma 2022 nella sezione Grand Public, Edoardo Falcone ci porta all’interno di una Roma antica, quella del 1829, facendoci conoscere alcune delle anime in pena che argentano le sue vie. In questo contesto, incontriamo Bartolomeo ‘Meo’ Proietti (Marco Giallini), che, ragazzo di umili origini, grazie alla sua caparbietà è diventato un uomo ricco. Il suo successo, però, lo spinge all’avidità: desideroso di prestigio sociale, vuole acquistare il titolo di ‘Principe di Roma’ conquistando Domizia, figlia del principe Ottavio Accoramboni (Sergio Rubini). Più che una conquista, un acquisto: la ‘mano’ della ragazza vale diecimila scudi, che Meo attende dalla Sicilia. Quando il messo che trasporta il denaro viene catturato e ucciso, Proietti decide di rivolgersi a una medium che lo metta in contatto con lo spirito dell’uomo, perché riveli dove è finito il prezioso carico. Otterrà molto di più di quanto aspettato: gli incontri con gli spiriti di Beatrice Cenci (Denise Tantucci), Giordano Bruno (Filippo Timi) e del Papa Alessandro Borgia (Giuseppe Battiston) gli indicheranno i suoi peccati, mostrandogli passato presente e futuro.
Il Principe di Roma è evidentemente il Canto di Natale di Charles Dickens rivisitato attraverso la verve romana di Marco Giallini, tra battute irriverenti e momenti di pura durezza d’animo, un percorso conoscitivo e redentivo che dipinge in chiave tragi-comica la vita di Meo: orfano, abbandonato da tutti, indurito dalle perdite che si sono susseguite, avido perché ancora attanagliato dai morsi di una fame meno letterale ma non meno drammatica; dalla miseria veniva, dalla miseria scappa, conducendo comunque un’esistenza miserabile.
Tra romanità e fantasia quello di Edoardo Falcone è un film che con un ilare sguardo giudicante ci ricorda, ancora una volta, quanto poco importante sia la materialità. Un Canto di Natale che diviene metafora di più ampi sentimenti in grado di strizzare l’occhio anche a grandi commedie all’italiana. Diviene quasi impossibile non pensare al “Conte Tacchia” o, ancor meglio, a “Il Marchese del Grillo”.