Mother, Couch recensione film di Niclas Larsson con Ewan McGregor, Rhys Ifans, Taylor Russell, Ellen Burstyn, Lara Flynn Boyle e F. Murray Abraham [RoFF18]
Quando qualcuno a noi caro si trova nel punto più basso della propria esistenza, dove ci rifugiamo? Cerchiamo conforto in chi ci circonda o ci chiudiamo in noi stessi?
Domande universali che il cinema si pone molto spesso perché comuni a tutti, indipendentemente dalla lingua o dalla cultura. Tutti dobbiamo venire a patti con il crepuscolo della vita, direttamente o indirettamente.
Mother, Couch fa di questo tema il proprio cardine, costruendoci attorno una vicenda familiare fuori scala, ristretta e compressa in un negozio d’antiquariato caotico quanto la vita di coloro che si trovano a gravitare al suo interno.
Il film di Niclas Larsson ci immerge nella vita di David (Ewan McGregor) un padre di famiglia che si ritrova assieme al fratello Gruffudd (Rhys Ifans) in un negozio di antichità con la loro madre (Ellen Burstyn), alla ricerca di una cassettiera contenente qualcosa di molto importante, a detta di quest’ultima.
Sedutasi su un costoso divano d’altri tempi, l’anziana signora non vuole saperne di andarsene. Così David si ritrova bloccato in questo bizzarro magazzino, sballottato a destra e a manca come un oggetto dell’inventario, tra una commessa giovane e aitante che lo ammalia, una sorella scontrosa e indurita da una vita difficile, un proprietario “scisso” tra cura del cliente e mero profitto e una moglie che non riesce più a dargli fiducia.
Sopraffatto da tutte queste istanze, che sembrano schiacciarlo allo stesso momento, in quella che appare come una degenza di due giorni in un luogo ai confini del mondo, David dovrà venire a patti con la sua condizione, con la sua vita, con le scelte fatte e quelle da fare.
Un processo che potrebbe benissimo essere raccontato in maniera lineare, ma che Larsson inserisce in un caleidoscopio tra sogno e realtà, alla ricerca di quel cassetto da aprire, rimasto chiuso per troppo tempo.
La storia raccontata è senza tempo, come lo è il film stesso, costruito su oggetti accatastati, raccolti, immagazzinati in tutta una vita, forse anche più di una. Gli smartphone convivono assieme a vecchi cellulari con l’antenna esterna.
Questo miscuglio di momenti di una vita persa nella storia dell’umanità Larsson ce lo racconta frammentando gli individui, persi in labirinti di corridoi, inquadrati tra gli infissi, visti da lontano, come colti in fallo nelle loro esistenze, scrutati con interesse documentaristico, quasi derubati del loro privato. La vicinanza concettuale a tanti generi rende complesso racchiudere il film in solo uno di questi.
A tratti è un melò di metà secolo scorso, a tratti una commedia nera come la pece; inquietante e grottesco, surreale e fantasioso, l’intera messa in scena diventa metafora del legame che ci attanaglia a chi ci sta vicino, per quanto ci abbia fatto del bene o del male durante gli anni.
A dirigere la creazione di questo mondo allucinato, affollato, incartato e dimenticato c’è una colonna sonora che riflette in modo impeccabile questo senso di disagio, di tempo sospeso e dilatato, punto morto dell’esistenza dal quale o si riesce a risvegliarsi o non si avrà più possibilità di tornare indietro.