Leonora addio

Leonora addio recensione film di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane [Anteprima]

Leonora addio recensione film di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker, Claudio Bigagli e Roberto Herlitzka

Primo film del tutto in solitaria di Paolo Taviani dopo la scomparsa del fratello Vittorio, Leonora addio, presentato in concorso alla Berlinale 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, rappresenta da diversi punti di vista un commiato alla figura di Luigi Pirandello. Tra i registi italiani infatti, i fratelli Taviani hanno il curioso record del maggior numero di adattamenti pirandelliani: particolarmente significativi in questo senso erano stati i due precedenti film a episodi Kaos del 1984 e Tu ridi del 1998.

Soprattutto Kaos, un vero e proprio epos siculo, combinava con ottimo equilibrio la fedeltà all’originale pirandelliano in una commistione con la sensibilità tipica dei Taviani: e Leonora addio sembra prendere le mosse dall’ultimo episodio di Kaos, che mostrava Omero Antonutti nei panni di Pirandello avere un colloquio col fantasma della madre morta. Il risultato è tutto all’insegna di un sobrio “addio”: alla morte di Pirandello si contrappone in filigrana l’assenza di Vittorio Taviani, a cui il film è dedicato, e la morte dello stesso Antonutti che lo interpretava in Kaos oltre ad essere stato il title character di Padre padrone. E se Paolo Taviani stesso nelle varie dichiarazioni fra radio e stampa si è dimostrato a volte più possibilista, altre volte più timoroso che questo sia il suo ultimo film per il cinema, Leonora addio diventa così l’occasione per un ultimo confronto con l’immaginario pirandelliano, particolarmente ispirato e denso: sicuramente si tratta del migliore film “dei” Taviani almeno dai tempi di Cesare non deve morire, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale di dieci anni fa.

Dania Marino e Dora Becker
Dania Marino e Dora Becker (Credits: Umberto Montiroli/Rai Cinema)
Matteo Pittiruti
Matteo Pittiruti (Credits: Umberto Montiroli/Rai Cinema)

Leonora addio ha una struttura curiosa: grossomodo due terzi del film sono infatti occupati dal resoconto del destino post mortem dell’urna che conteneva le ceneri di Pirandello, che il drammaturgo, morto nel ’36, avrebbe voluto disperse ai quattro venti e che invece riposano in una sorta di masso-mausoleo nella sua nativa Agrigento, dopo essere state spostate da Roma all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale. Una volta che le ceneri sono state definitivamente riposte nel monumento per esse preparato, al termine di una peregrinazione degna essa stessa di una novella pirandelliana, la narrazione fa spazio alla breve messa in scena di un altro racconto di Pirandello, diverso da quello che dà il titolo al film – uno degli ultimi, intitolato Il chiodo, ambientato nella New York degli anni trenta. Questa narrazione guizzante, e nell’ultima parte quasi tendente all’astratto, rappresenta uno degli aspetti di maggiore originalità e freschezza del film.

Il dolce della gloria non può compensare l’amaro di quanto è costata“. Con questo voice over si apre il film, tratto dalle riflessioni retrospettive di Pirandello sulla serata di premiazione del Nobel a Stoccolma. Sia l’incipit del film che svariati altri momenti della narrazione mostrano il montaggio della messinscena intervallarsi con materiale d’archivio d’epoca: questi frammenti disseminati lungo tutta la durata del film offrono l’appiglio per una riflessione sul valore testimoniale del cinema, e del linguaggio audiovisivo in genere. In effetti, la storia delle ceneri di Pirandello sembra essere, oltre che un omaggio al tono e allo stile prosastico-dissacratorio di molte delle sue novelle, anche una scusa per raccontare l’Italia dell’immediato dopoguerra, così come la più rapida messa in scena della novella Il chiodo offre scorci sulla condizione dei migranti italiani nell’America del primo Novecento.

Leonora Addio recensione film di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane
Leonora Addio di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino e Dora Becker (Credits: Umberto Montiroli/Rai Cinema)

Senza dubbio c’è una forte continuità tra Leonora addio e la precedente produzione dei Taviani. Questa continuità si coglie in modo particolare nella scena della processione della bara contenente le ceneri di Pirandello tra le vie di Agrigento: quella della processione – di una bara, della statua di un santo, di un condannato a morte o di una giara – è per così dire la “scena originaria” del cinema dei Taviani, ed è toccante ritrovarla in Leonora addio con la stessa leggerezza che caratterizzava un analogo passaggio di Padre padrone. Del resto, lungo tutto il film, i personaggi di contorno si accostano alle ceneri di Pirandello con la stessa trepidazione con cui i bambini di Padre padrone si accostavano ad una primigenia sessualità animale, così come una scena di flashback – la partenza dei migranti dalla Sicilia rurale – posta all’inizio dell’ultima tappa del film ricalca un momento di Kaos. La stessa leggendaria New York primonovecentesca in cui si consuma la fosca vicenda de Il chiodo ricorda, del resto, lo sfondo hollywoodiano di un altro film dei Taviani al massimo del loro sfarzo produttivo, il metacinematografico Good Morning Babilonia.

Leonora Addio recensione film di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane
Leonora Addio di Paolo Taviani con Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino e Dora Becker (Credits: Umberto Montiroli/Rai Cinema)

È un cambio cromatico la chiave fotografica con cui si esplica il passaggio dal resoconto, sia pure romanzesco, delle vicende delle ceneri di Pirandello, alla messa in scena della novella, sia pure basata su un fatto di cronaca nera realmente accaduta, de Il chiodo. E questo passaggio dal bianco e nero al colore, già sperimentato proprio in Cesare non deve morire, risulta ben riuscito per quanto didascalico, anche grazie al talento dei due diversi direttori della fotografia, Paolo Carnera e Simone Zampagnini. Brusca, ma non confusa – semplicemente: senza esternazione di significato – è la resa della novella Il chiodo a livello di montaggio e di esplicazione drammaturgica; ma non per nulla in moviola al film ci stava un fuoriclasse del calibro di Roberto Perpignani, che iniziò la sua carriera con Il processo di Orson Welles e che è il montatore inseparabile dei fratelli Taviani sin dal 1969 de Sotto il segno dello scorpione.

Sorprende, nella prima parte del film, ambientata nei dintorni di Roma e subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, cogliere qualche affinità di ambientazione e situazioni con il ben più favolistico Freaks Out, l’opera seconda di Gabriele Mainetti, di cui un’importante e discussa sottotrama mostrava uno scorcio di guerra partigiana. Sorprende, e non sorprende al tempo stesso, rilevare come Mainetti abbia molto più idealizzato la Roma degli anni quaranta rispetto a Paolo Taviani, che, benché non a Roma bensì nel comune toscano di San Miniato, gli anni dell’occupazione nazista e della liberazione li ha biograficamente vissuti. Ma tutto questo fa fisiologicamente parte di una dialettica intergenerazionale, tra registi e intellettuali in genere. Certo è che, assieme all’approdo fuori concorso alla Berlinale del nuovo, atteso film di Dario Argento Occhiali neri, la presenza di Leonora addio nella competizione ufficiale di uno dei principali Festival a livello europeo testimonia come le vecchie guardie del nostro cinema hanno una voglia ben precisa di non andare ancora in pensione.

Sintesi

Leonora addio diventa per Paolo Taviani l'occasione per un ultimo confronto con l'immaginario pirandelliano, particolarmente ispirato e denso. Una riflessione sul valore testimoniale del cinema e del linguaggio audiovisivo in genere, impreziosita nell'ultima parte da una narrazione guizzante e quasi tendente all'astratto, che rappresenta uno degli aspetti di maggiore originalità e freschezza dell'opera, la migliore "dei" Taviani dai tempi dell'Orso d'Oro Cesare non deve morire.

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