La stranezza recensione film di Roberto Andò con Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Donatella Finocchiaro e Luigi Lo Cascio
Alla 17° edizione della Festa del Cinema di Roma sbarca un Luigi Pirandello perso nei meandri della sua mente, costantemente interrogato dai suoi fantasmi, creazioni senza stampo, materia immateriale della vita nell’arte. Una tragicommedia d’altri tempi moderni, che esplora la nascita di un’idea, lo sviluppo di un’intuizione, poco importa se geniale o ignobile. La stranezza ci porta proprio su questo fronte di guerra intellettuale con se stessi, mettendo in scena il processo creativo dietro la realizzazione di una rivoluzione per la drammaturgia: Sei personaggi in cerca d’autore.
Un processo creativo, questo, ipotetico, plausibile, nato dalle fantasticazioni legate al reale viaggio in Sicilia intrapreso dal Maestro in occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga. Qui Pirandello (Toni Servillo) trova un’oscura notizia ad attenderlo: la sua balia, figura fondamentale della sua formazione, è morta la notte prima del suo arrivo. È necessario organizzare il funerale, ma non c’è molta scelta nel piccolo paesino agrigentino dal quale proviene, così si ritrova a dover far affidamento su due becchini, Onofrio Principato (Salvatore Ficarra) e Salvatore Vella (Valentino Picone) che, nel tempo libero, si dedicano all’arte teatrale.
La pellicola rimbalza costantemente tra le vicende mondane e genuine del duo di impresari improvvisati, da commedia dell’arte, e i più scuri e profondi pensieri che tormentano l’esegeta in questo momento di stasi creativa, ossessionato dai personaggi che affollano la sua mente come mandrie di bestiame senza guida. L’incontro tra questi due mondi è nello spazio teatrale, scenico e non. La stranezza è un film che parla su più fronti, come se fosse composto da strati. C’è la commedia superficiale, le vicende di questi caratteri rurali molto definiti nei loro ruoli, quasi fossero essi stessi i personaggi di un’operetta teatrale, vita nello spettacolo e viceversa. Tali protagonisti del quotidiano vengono scrutati da Pirandello, che si aggira come figura mortifera tra le mura di un teatro qualunque, embrione di tutti gli spazi scenici. Ma le maschere di Ficarra e Picone si sgretolano sotto la forza schiacciante del sottotesto, velato ma non troppo, che innerva la vicenda endemicamente. Lo spettacolo incontra la follia, l’atto artistico si scontra con la pazzia.
“Manicomio! Manicomio!” gridano alcuni spettatori alla fine della prima di Sei personaggi in cerca d’autore, tenutasi al romano Teatro Valle il 9 maggio 1921. Ma come definire la pazzia? È pazzia essere ossessivamente circondati dalle proprie creazioni, forma viva di materia morta? È pazzia quella che affligge la moglie del poeta, accenno di una presenza fantasmatica che per quest’ultimo è più ammorbante delle visioni invasive di una mente senza sosta? È pazzia quella di Onofrio, secondino della sorella, che confonde protezione con prigionia, o l’ostinatezza di Sebastiano nel voler mettere in scena la propria opera prima facendo affidamento su amici e conoscenti? È forse pazzia il totale annichilimento dei confini performativi, facendo entrare in scena i personaggi dalla platea, pubblico del loro stesso dramma? Roberto Andò sembra chiedersi proprio questo con tale avventura immaginifica, sogno lucido all’interno della vita di una figura chiave del XX secolo. E lo fa in modo non invasivo, nascondendo la macchina da presa allo stesso modo del ladro-Pirandello, “cassamortaro” di impressioni, traghettatore di anime dalla morta-vita del quotidiano alla viva-morte della scena, spia dell’arte col ghigno d’amatore.