Inu-Oh recensione film d’animazione di Yuasa Masaaki con Avu-chan (Queen Bee) e Mirai Moriyama presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 78
Inu-Oh, recensione: Masaaki Yuasa rende rock la storia giapponese e il Teatro No
Disabilità, deformità, folklore, storia e libertà artistica: Masaaki Yuasa fonde tutto questo in un film animato – presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 2021 – capace di raccontare la tradizione in chiave sperimentale, di mettere in evidenza nelle leggende più datate archetipi e personaggi il cui anticonformismo non perde la sua forza anche al presente. Lo fa con quello stile di regia dinamico e sperimentale che gli ha consentito di diventare uno dei registi d’animazione giapponese più apprezzati dalla critica sullo scenario attuale (Devilman Crybaby, The Tatami Galaxy), con un approccio di rottura rispetto allo stesso canone degli anime.
Non sorprende quindi che il regista scelga come suo eroe il leggendario attore di Teatro No (forma drammaturgica tradizionale giapponese di cui il racconta la nascita e l’evoluzione) che dà il titolo al suo film e la cui vita è un racconto sospeso tra verità storica e leggenda. Inu-Oh nacque nel XIV secolo in un Giappone feudale basato sull’associazione ai clan delle grandi famiglie e alle prese con la lotta tra due Shogun che reclamavano entrambi per sé il diritto a regnare sul paese. Venuto alla luce in una famiglia che coltivava il culto della bellezza con terribili deformità che ne deturpavano il volto e il corpo, si dice che il giovane Inu-Oh fosse costretto a indossare tutto il tempo una maschera e a vivere con i cani di casa, come un animale domestico
L’arte cancella ogni deformità
Masaaki Yuasa non indulge nel patetismo per questa figura, ma la mette al centro della scena per riflettere sul processo creativo dell’artista e sul terribile potere che comporta. Una delle sequenze più belle di Inu-Oh è quella in cui ci viene mostrato che, man mano che impara l’arte musicale e della danza, la deformità quasi sovrannaturale del corpo di Inu-Oh si riassorbe, si annulla. Abituato a camminare a quattro zampe e a comportarsi come un cane di casa, Inu-Oh impara a camminare su due gambe, a parlare e a prendersi cura di sé attraverso la musica. Il suo gesto artistico è talmente potente e toccante da cancellare lo stigma della deformità.
Suo compagno di viaggio e amico di vita è Tomona, giovane suonatore di biwa (una sorta di liuto tipico del sud est asiatico) cieco. Per spiegarne la disabilità con lo stesso approccio magico di quella di Inu-Oh, Yuasa introduce uno dei racconti epici fondativi dell’intera storia giapponese. Quello della guerra tra il clan dei Genji e quello degli Heike nel Giappone medioevale. Gli Heike sono tra i perdenti della storia più celebrati e amati: nei secoli centinaia di libri, racconti e leggende hanno circondato il clan e la sua disfatta nella battaglia navale di Dan-no-ura (1185). Yuasa fa in modo che sia proprio un cimelio di famiglia Heike (una spada sepolta in mezzo al mare) a togliere la vista a Tomona e a renderlo orfano, spingendolo a cercare fortuna in giro per il mondo.
Il prezzo della libertà creativa
La coppia formata da Tomona e Inu-Oh – anticonvenzionale, creativa e vagamente trasgressiva – riscuoterà sempre maggiore successo presso il pubblico. Quando tenterà di rileggere e far propria persino la tradizione orale riguardante il clan degli Heike, si scontrerà con il costo che comporta la libertà artistica, specie quando finisce per prendere strade di rottura rispetto alla tradizione e ai desiderata del potere. Un costo che un regista come Masaaki Yuasa probabilmente riesce a quantificare molto bene sulla base della sua esperienza.