Falcon Lake recensione film di Charlotte Le Bon con Joseph Engel, Sara Montpetit, Jeff Roop, Monia Chokri e Karine Gonthier-Hyndman
Bastien, adolescente taciturno e introverso, durante una vacanza in campagna con i genitori, conosce Chloé di qualche anno più grande e se ne innamora. Bastano poche righe per racchiudere la trama dell’esordio alla regia dell’attrice Charlotte Le Bon (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà, Yves Saint Laurent, The Walk) basata sulla graphic novel A Sister di Bastien Vivès. L’opera, scritta dalla stessa regista, parte come il più classico dei film di formazione. Si concentra infatti sul rapporto tra i due ragazzi, che inizia come una fantasia del taciturno Bastien (Joseph Engel) e si concretizza poi grazie all’estrosa Chloé (Sara Montpetit), alle prese con le prime delusioni d’amore e alla ricerca (forse) dell’inesistente principe azzurro.
Pur sapendo che non stiamo guardando un horror e che non lo guarderemo mai, la regista ha la capacità di far aleggiare, fin dalle prime scene e per tutta la durata della visione, una sensazione di tensione più che palpabile. I toni scuri e quasi tetri caratterizzano la bellissima fotografia di Kristof Brandl, percezione enfatizzata anche dalla colonna sonora a tratti inquietante.
È proprio questa caratterizzazione a rendere la notte molto più interessante del giorno. È il buio infatti che incute timore, risveglia i fantasmi e le paure sopite. Riporta a galla i mostri dell’infanzia che l’adolescenza cela ma non sconfigge. Così il lago si anima di leggende di morti giovani, improvvise e terribilmente premonitorie. Bastien e Chloé cercano di esorcizzarle ma la solitudine, che inconsapevolmente li avvolge, non lo permette mai fino in fondo.
La stessa natura, silenziosa e onnipresente in ogni inquadratura, avvolge tutto e tutti. Soprattutto Bastien che se ne va in giro in bici incapace di socializzare, dando voce all’emarginazione adolescenziale, sintomo di inadeguatezza fin quando – la sua infatuazione per Chloé – lo obbliga al contatto umano.
Bastien inizia così a fare i conti con la presenza di terzi incomodi che lo infastidiscono, tutti elementi disturbanti verso un equilibrio precario che minaccia la sua solitudine fino a scombinarla. Così quello stesso sentiero percorso poco prima, in solitaria, con la bici, diventa una corsa in tandem con l’amore e si trasforma in metafora di vita, laddove quell’ultima estate dell’adolescenza è il confine che separa dalla maturità.
Tra gli elementi di questa natura, protagonista assoluto è l’acqua, con tutto il simbolismo che si porta dietro. L’acqua fonte di mistero, di rinascita e purificazione; elemento liquido, puro, adattabile e ricettivo. Visto come forza misteriosa, in grado di trasformarsi continuamente, penetrando il suolo e la roccia e nutrendo la terra sotto forma di pioggia che nel film compare spesso, accompagnando alcune delle scene più suggestive.
Charlotte Le Bon gira Falcon Lake in otto millimetri, quasi a volerlo rendere un filmino di famiglia da rivedere con nostalgia. Lo carica di inquadrature simmetriche donandogli un senso di stabilità e concretezza grazie anche alla camera fissa spesso presente. Così i protagonisti non sono mai solo Bastien e Chloé ma ogni elemento visibile. Questa staticità diventa forse anche un modo per dirci che ci sono cose che restano immobili mentre noi irrimediabilmente evolviamo.
Falcon Lake è una pellicola da ammirare cercando di cogliere il senso che c’è dietro ogni sguardo e ogni gesto. È un film che ha bisogno di molto tempo per carburare e per lasciarsi assimilare, ma regala un finale intenso, in parte intuibile, ma significativo.