The Elephant Man recensione del film di David Lynch con Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft e John Gielgud
Da quasi sette anni, il progetto de Il Cinema Ritrovato, è quello di restaurare i negativi originali e riportare in sala opere cinematografiche d’altissima caratura. Parliamo di pellicole del calibro di Tempi Moderni (1936); Gioventù Bruciata (1955); I quattrocento colpi (1959) e Barry Lyndon (1975). Dallo scorso 21 settembre 2020, fino agli inizi di ottobre, è la volta di The Elephant Man (1980); opera seconda di David Lynch con cui raccontare della tragica vita di Joseph Merrick in un delicato e struggente bianco e nero. Una distribuzione in tutta Italia, volta a celebrare il quarantennale di una delle opere più rilevanti del cinema hollywoodiano degli anni Ottanta.
Con le sue otto nomination agli Oscar 1981, il biopic su Merrick rappresenta l’affermazione nel cinema che conta per Lynch, che dopo lo sperimentale Eraserhead – La mente che cancella (1977), prende parte a un progetto decisamente più canonico sul piano narrativo – al pari del successivo Dune (1984). Un passaggio essenziale per l’evoluzione di un talento registico come quello di Lynch; i cui parametri poetico-filmici risultavano ancora sperimentali e non del tutto configurati in un solido terreno narrativo.
Il cinema di Lynch è d’altronde un cinema di immagini e suggestioni. Le esperienze con The Elephant Man e Dune – con quelle sottili manipolazioni filmiche – sono l’anticamera di ciò che vedremo da Velluto Blu (1986) in poi. Da Strade perdute (1997) a Twin Peaks (1992-2017); passando per Mulholland Drive (2001) e Inland Empire – L’impero della mente (2006), Lynch opera una progressiva destrutturazione delle abituali estetiche filmiche del cinema noir. Un processo attraverso cui il linguaggio filmico onirico lynchano, va via via ad emergere; compenetrando e spazzando via definitivamente i sempre più impercettibili residui di linearità del racconto.
Mel Brooks presents: The Elephant Man
La fase di pura libertà creativa della New Hollywood, ha permesso l’emergere di cineasti giovani, con idee valide e narrativamente sovversive. Dennis Hopper ad esempio, scosse l’America con una totale destrutturazione di generi e linearità. Paul Mazursky la raccontò con un occhio quasi documentaristico declinando sferzanti critiche sociali.
Mel Brooks scelse invece l’approccio parodistico – come nel caso di Frankenstein Junior (1974) – realizzando opere d’ingegno dalla forte carica umoristica; ma senza per questo perdere il senso stesso dell’orrorifico alla base. Non stupisce quindi che nei titoli di testa di The Elephant Man, il suo nome sia stato omesso; un’inevitabile associazione con il suo tipico cinema leggero e al contempo intelligente e scanzonato, avrebbe creato non pochi errori di valutazione tra gli spettatori.
Viene da chiedersi in che modo possa essere associabile Mel Brooks alla seconda regia di David Lynch, di fatto due mondi narrativi totalmente agli antipodi. Il grado di separazione ci viene fornito dalla casa di produzione di The Elephant Man: la Brooksfilms – fondata dal regista de Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) sul finire degli anni Settanta. Le cronache dell’epoca raccontano infatti, di come Brooks fosse poco convinto dalla scelta di Lynch alla regia; specie per l’idea d’affidare a un regista agli esordi un’opera così complessa – la visione di Eraserhead spazzò via ogni minima preoccupazione.
Brooks credeva tantissimo nel progetto e nella sua resa, per questo rimase non poco perplesso nei confronti del responso dell’Academy agli Oscar 1981; commentando attraverso una lungimirante visione critica, la sconfitta in favore di Gente comune (1980) di Redford:
Da qui a dieci anni Gente comune sarà la risposta a un gioco di società, ma la gente andrà ancora a vedere The Elephant Man.
Nel cast di The Elephant Man figurano John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud; e ancora Freddie Jones, Michael Elphick, Dexter Fletcher, Kenny Baker e Wendy Hiller.
The Elephant Man: sinossi
Tratto da The Elephant Man and Other Reminiscences di sir Frederick Treves e The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu; il deforme Joseph Merrick (John Hurt) – soprannominato l’Uomo elefante – vive come freak di Bytes (Freddie Jones), esibendosi in uno spettacolo itinerante in cui è la “stella”. Merrick viene irretito e umiliato dai curiosi che lo osservano.
A uno di questi spettacoli, sospeso ancor prima d’iniziare per oltraggio al pudore, assiste il Dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins). Da uomo di scienza, Treves è incuriosito dalla malformazione di Merrick cercando così d’aiutarlo. Bytes però è geloso delle attenzioni verso la sua “creatura”; di ritorno dalla prima visita, Merrick viene infatti bastonato violentemente.
Scoperte le lesioni sul capo, Treves interviene mettendo Merrick in quarantena; provando così a dargli una vita dignitosa e “decente”. Le attenzioni di Treves, della capo-infermiera Madre Shead (Wendy Hiller) e del direttore della struttura Gomm (John Gielgud) cambiano Merrick; iniziando così un processo di ricostruzione della sua dignità d’individuo che porteranno l’Uomo elefante, a riscoprirsi nei piaceri e nelle piccole cose. Ma la gente come Bytes – disposta a lucrare sulla sua condizione – è dietro l’angolo. Per Merrick significherà tornare alla sua condizione di fenomeno di baraccone; scegliendo se voler vivere da freak, o da uomo pronto a riprendersi in mano la sua vita.
Il vero “Uomo elefante” Joseph “John” Merrick
Nato il 5 agosto 1862 a Leicester, primo di tre figli, l’originale The Elephant Man – Joseph Merrick inizia a mostrare i primi segni di deformità dovuta alla Sindrome di Proteo in tenerissima età. Già a cinque anni, Merrick era totalmente trasformato, eccetto che nei genitali e nel braccio sinistro. Come se non bastasse, all’età di undici anni Merrick si ruppe la gamba sinistra. Viste le condizioni ingerenti della famiglia, la gamba non ricevette mai le dovute cure mediche, costringendolo così alla zoppia per tutta la vita.
Il quadro familiare di Joseph era drammatico. Morta la madre a undici anni, il padre – anch’esso di nome Joseph – si risposò in seconde nozze. La matrigna non accettò mai la deformità di Joseph; spingendo così il padre a un ultimatum “o Joseph, o me“. Merrick si trovò così in mezzo a una strada nemmeno che adolescente. Si mantenne da vivere vendendo lucido da scarpe per sopravvivere, subendo costantemente le beffe dei bambini del vicinato.
La svolta arrivò con i freak show, con cui Merrick poté vivere una vita finalmente decente, viaggiando tra Regno Unito e Belgio. Qui, il presentatore con cui entrò in affari iniziò a maltrattarlo, per poi abbandonarlo. Non perdendosi d’animo, Merrick tornò a Londra dove conobbe il dottor Frederick Treves; probabilmente l’unica persona che gli diede del concreto affetto.
Nella capitale britannica, Merrick visse i suoi anni più felici, diventando perfino una celebrità presso l’alta società vittoriana. Treves raccontò in seguito che Merrick avrebbe voluto trasferirsi in un istituto per ciechi; sperando così che una donna si potesse innamorare di lui nonostante l’orrido aspetto – ma non accadde mai. Merrick trovò conforto nell’arte e in particolar modo nella poesia, ma non riuscì mai di vedere il trentesimo anno d’età. Joseph Merrick morì infatti l’11 aprile 1890, a ventisette anni, per soffocamento “da sonno normale”; ipotesi riproposta poi da Lynch in chiusura di racconto.
“Quello è un aborto, che altro potrebbe fare?”
Un primissimo piano di occhi e di una bocca. Una fotografia incorniciata; una dissolvenza con primo piano zoomato di un volto. Degli elefanti al rallenti; l’incrocio delle sequenze in dissolvenza. Elefanti che incedono verso lo spettatore. Un barrito; una donna a terra in preda al terrore. Una nube mista a vagiti. Silenzio. Poi fiamme, e la presentazione del personaggio di Hopkins in un piano medio “ad allontanarsi”.
Si apre così il racconto di The Elephant Man, caratterizzandosi di una forte distorsione del suono, di un’esagerato effetto rallenti. Il tipico linguaggio filmico Lynchano – a metà tra l’onirico e il surreale. Gioca Lynch con la costruzione dell’immagine, realizzando incubi a occhi aperti tra barriti, urla e vagiti. Si dispiega così l’intreccio scenico, in un piano sequenza circense con cui Lynch affida infatti il ruolo di sguardo dello spettatore, agli occhi del Dr Treves di Hopkins.
Muovendosi così tra “il frutto del peccato originale”; strani esseri in vitro; specchi distorcenti; Freaks di browninghiana memoria e donne barbute; accompagnandoci in un viaggio senza fine, nei labirinti da incubo dei fenomeni da baraccone circensi – o almeno così sembrerebbe. Dispiegando da subito una forte opposizione tra lo sguardo voyeuristico dell’uomo “normale” e il freak, in un incedere accanito di un occhio tra il curioso e il giudicante, tra risate e pianti.
Poi però una parete “THE TERRIBLE ELEPHANT MAN”, qualcosa di troppo oltre per il comune sguardo umano. Lynch pone così un effettivo punto nel fin dove lo sguardo umano può andare, di certo non verso un “aborto”. Tra una parete, un divieto, e uno sguardo, Lynch pone così le basi della dinamica relazionale tra il Treves di Hopkins, e il Merrick di Hurt.
Lo sguardo di Frederick Treves
Nella nebbia di una Londra Vittoriana e proto-industriale, dalla scenografia curata, inizia quello che potremmo intendere il viaggio dell’eroe, in una ricerca mossa da curiosità e mistero. In tal senso, lo sguardo di Treves assume un’importanza di non poco conto nell’economia narrativa di The Elephant Man; specie in relazione all’effettiva evoluzione scenica. Laddove infatti, in apertura di racconto, il suo era lo sguardo dell’uomo comune; che se si aggira fra i freaks è per il gusto – mal celato – di osservare il diverso, l’altro. Con lo sviluppo del racconto, lo sguardo di Treves si evolve di pari passo con l’evoluzione della narrazione e della dinamica relazionale; non più da “curioso giudicante”, ma da “uomo di scienza”. Da “spettatore” ad “amico”.
Tra l’encefalite, i suoni misti a barriti frutto di una malformazione della zona mascellare, la schiena coriacea, Lynch realizza il primo effettivo incontro tra il Treves di Hopkins, e il Merrick di Hurt, in un’opposizione di campo e controcampo. Nella fotografia cupa del sotterraneo che adombra il corpo di Merrick, alla luce insita sul volto di Treves, in un primo piano zoomato che è pura commozione.
Il ruolo narrativo dello “sguardo” secondo David Lynch
È “lo sguardo” – inteso in senso filmico e narrativo – la chiave di volta del racconto di The Elephant Man. L’occhio celato dal camuffamento di Merrick; gli occhi vivi di Treves; gli occhi degli sguardi indiscreti dei passanti; perfino dei medici che scrutano ogni imperfezione fisica del corpo “tumorale” di Merrick. L’occhio della regia di Lynch – invece – ne permette il tutto osservando, filmando, piegando la volontà dello spettatore e della sua insita curiosità; il regista americano gioca infatti con la resistenza dell’individuo, che brama il poter vedere Merrick nel pieno del suo “aborto fisico”.
Mostrandoci così il corpo del suo Elephant Man per mezzo di filtri fotografici, fisici, panoramiche ed espedienti di montaggio; perfino nelle espressioni incuriosite e disgustate nei piani medi di chi lo guarda. Merrick viene così spogliato ed analizzato ma mai mostratoci nel pieno della sua grandezza se non attraverso “distorsive” riprese dall’alto.
The Elephant Man: da bestia a uomo
Lo sviluppo del racconto, in un incedere della dinamica relazionale tra Treves e Merrick – e nel mostrarcelo nella sua totalità fisica, non ha soltanto i sopracitati effetti narrativi. Nel secondo atto infatti, Lynch opera un processo inverso a livello registico e di costruzione d’immagine; risultando così limpida, pura, in piani medi permeati di dolore e di tutta la fisicità del Merrick di Hurt.
In tal senso, nella sopracitata dinamica relazionale, tra Salmi e sforzi immani, Lynch opera una progressiva ricostruzione dell’agente scenico John Merrick. Un riaprirsi alla vita – e alla sua dignità – con cui agire ora su una postura corretta, ora sull’elemento linguistico; ora sul vestiario e il talento artistico. In una graduale evoluzione da “bestia” ad “individuo”, tra prime volte con cui riscoprire il valore della vita – a cui Lynch oppone i tentativi, dalla valenza scenica crescente, di demonizzazione della sua aberrazione, da parte del portiere notturno di Elphick.
La ricerca dell’amore di Merrick permette, tra il disagio nello sguardo e l’allargamento delle maglie relazionali, di alzare la posta in gioco di una già solida narrazione. In una maggior presa di coscienza, a cui fa seguito l’accettazione della propria mostruosità; così facendo Lynch crea un’opportunità narrativa, con cui realizzare raccordi scenici caratterizzati di un linguaggio filmico onirico – giocando con gli incubi dell’intricata psiche dello stesso Merrick.
“Tieni, comprati una caramella“
Un equilibrio manomesso progressivamente, che trova l’apice nell’escalation di eventi che portano alla climax del racconto. Così facendo, Lynch gioca con la caratterizzazione del suo agente scenico in una decostruzione dell’umanizzazione di Merrick e susseguente ricostruzione – operando in modo chirurgico, netto e narrativamente appagante. Un’orgia di sensi e alcool della più pura cattiveria umana con cui Lynch incede tra sguardi indiscreti degni della celebre sequenza di Metropolis (1927) e l’altrettanto celebre sequenza alla stazione ferroviaria; agendo così verso una progressiva ricodifica della condizione da freak del Merrick di Hurt.
Privato dei vestiti, di scarpe sostituite con sacchi della spesa, e della dignità umana, Lynch gli fa lanciare un urlo primordiale d’auto-affermazione; caricando così di significazione la risoluzione del conflitto scenico. Azione necessaria per operare nella dimensione dell’umanità – contraria alla precedente.
“Vorrei poter dormire come la gente normale“, il Lynch lineare al suo meglio
Tra una standing ovation, un saluto intimo, e dei cuscini buttati via, Lynch opera nella direzione più pura e sincera possibile: essere un uomo, vuol dire dormire come un uomo. In fondo è questo The Elephant Man. Un commuovente omaggio a un uomo dolce – lanciato nel buio dello spazio profondo. In una chiusa rievocata, involontariamente, nella costruzione d’immagine dell’apertura di racconto del “successivo” Dune; Lynch consacra il suo talento narrativo realizzando una delle sue “rare” opere lineari – al pari de Una storia vera (1999), da cui traspare una sferzante critica agli istinti primordiali dell’umanità. Amore e odio. Rispetto e violenza. Umanità e bestialità, avvolti nel corpo sgraziato e tumorale di Joseph Merrick – più umano di tanti uomini, apparentemente, sani.