Rebel Ridge recensione film di Jeremy Saulnier con Aaron Pierre, AnnaSophia Robb, Don Johnson e Emory Cohen [Netflix]
di Federico Lojacono
Quando Terry Richmond (Aaron Pierre), un ex marine, arriva nella cittadina di Shelby Springs, viene immediatamente fermato e ammanettato da due agenti. Dopo il sequestro dei soldi per la cauzione del cugino Mike, Terry cerca di far valere i propri diritti e denuncia gli abusi della polizia. Tuttavia, il capo della polizia Sandy Burnne (Don Johnson) lo avverte che insistere gli porterà solo guai.
Ben presto Terry capisce che tutti in città si voltano dall’altra parte di fronte alla corruzione della polizia, che sequestra di continuo i soldi dei sospettati o delle persone in stato di fermo per coprire i buchi di bilancio. Con l’aiuto di Summer (AnnaSophia Robb), l’unica impiegata onesta del tribunale, Terry decide di sfidare il dominio di Burnne, il quale gli scatenerà contro tutta la forza di polizia.
Nonostante la premessa del nuovo thriller di Netflix ricalchi quella di un film icona come Rambo e il paragone sorga spontaneo, Rebel Ridge possiede una personalità e un’atmosfera che non hanno niente a che spartire con l’action anni ’80. Questo perché alla scrittura, regia e montaggio del film c’è Jeremy Saulnier, una delle voci più originali del cinema americano indipendente. La folgorante salita alla ribalta con il dolente Blue Ruin (2013) e la conferma del suo talento grazie al successivo Green Room (2016) lo hanno identificato come un autore capace di unire i brividi del thriller alle riflessioni sull’assurdità della violenza e al racconto di un’America rurale dimenticata da Hollywood.
Il regista con Rebel Ridge abbraccia i cliché del cinema d’azione e li cala in un verismo fatto di violenza realistica e di critica sociale rendendolo fresco e provocatorio. Evita quindi di guardare con sufficienza al genere di appartenenza, quell’action-thriller alla Jack Reacher a cui Terry Richmond è chiaramente ispirato, vista la sua torreggiante fisicità e la facilità con cui supera qualunque sfida. Il film dedica grande alle sequenze d’azione evitando il chiasso roboante tipico dei blockbuster hollywoodiani e puntando invece su una tensione al realismo e all’asciuttezza, che le rende forse meno spettacolari ma più sentite.
Il film non si riduce tuttavia a una semplice serie di scene movimentate, che risultano piuttosto limitate (e forse proprio per questo più appaganti). Al contrario, il respiro della narrazione è lento e calcolato, e permette al film di tracciare un minuzioso affresco del Sud degli Stati Uniti.
Chiunque a Shelby Springs è in qualche modo vittima delle difficoltà (soprattutto economiche) della vita di provincia. La povera Summer, l’unica abbastanza coraggiosa da aiutare Terry, è una ex tossica che lotta per la custodia della figlia. Il capo della polizia lotta tutti i giorni contro la scarsità di uomini e fondi, costringendolo a usare mezzi alternativi per garantire la sicurezza su un territorio enorme. Sotto il sole torrido della Louisiana si respira un’atmosfera di abbandono, povertà e frustrazione pronta ad esplodere.
La miccia che la farà saltare è proprio Terry Richmond, un veterano dalla moralità e dall’indole granitiche. Forse proprio per cercare di distaccare il suo eroe dall’icona creata da Sylvester Stallone, il regista ha caratterizzato Richmond come un pacifista. È uno che evita a tutti i costi lo scontro ed è disposto a mandare giù soprusi e pregiudizi pur di non combattere. Anche la sua forza è sempre non letale, volta a disarmare o ferire usando le arti marziali invece che uccidere con le armi. Ma quando la rabbia cresce tanto in lui quanto nello spettatore, è il momento di passare all’attacco.
Il personaggio sfrutta sicuramente al meglio la fisicità di Aaron Pierre, ma la sua intelligenza emotiva, il suo carisma e la sua gentilezza lo rendono un personaggio più complesso della solita montagna di muscoli castigamatti.