Per un pugno di dollari recensione del primo capitolo della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone con Clint Eastwood, Gian Maria Volontè e Marianne Koch
Era il 1964 quando il mondo venne travolto dalla visione registica di Sergio Leone. Dopo tanta gavetta tra seconde unità di regia, e un’opera prima come Il colosso di Rodi (1961) – peplum decisamente poco ispirato e narrativamente canonico – dà vita a Per un pugno di dollari (1964), con cui codificare il genere spaghetti-western, e consacrare la stella di un giovane – ma già dotato di grande intensità scenica – Clint Eastwood (Mystic River, Richard Jewell, I ponti di Madison County).
Il film, ritenuto unanimemente come il caposaldo del suo genere, lo è ma più da un punto di vista d’impatto nella storia del cinema. Leone ebbe il pregio di riuscire a dare un’impronta ben definita ad un genere che seppur rilevante nel periodo di massimo splendore del cinema moderno, era già da considerarsi prosciugato tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Film come Una signora dell’Ovest (1942) di Carl Koch; Il fanciullo del west (1942) di Giorgio Ferroni; o Il bandolero stanco (1952) di Fernando Cerchio, concepiti più come parodie comiche e riletture liriche, ma senza un’effettivo cuore western. Leone ci riuscì, dando così una svolta alla sua carriera e alla storia del cinema.
La regia dinamica e moderna permise non solo a Leone di uscire dal terreno paludoso – e decisamente poco proficuo – dei peplum, ma anche d’innescare un effetto domino, di risveglio di coscienza nei cineasti americani.
Gli spaghetti-western di Sergio Leone diedero così seguito ai grandi western revisionisti del cinema americano dei Peckinpah; Penn; Altman; e lo stesso Eastwood che tra Il texano dagli occhi di ghiaccio (1975), Il cavaliere pallido (1985) e Gli spietati (1992) ha saputo porsi come unico vero erede della tradizione Fordiana.
Per un pugno di dollari: sinossi
Un pistolero solitario, Joe (Clint Eastwood), arriva a San Miguel, una cittadina di confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Dopo aver visto un bandito compiere dei soprusi su di un bambino, decide di entrare in paese e dare un’occhiata.
Joe scoprirà che quella terra di confine è dilaniata da una guerra civile tra famiglie. I Rojo di Ramon (Gian Maria Volontè) ed Esteban (Sieghardt Rupp); i Baxter dello Sceriffo John (Wolfgang Lukschy) e Antonio (Bruno Carotenuto). I primi commercianti d’alcolici, gli altri d’armi. Joe decide di vendersi ad entrambe “per un pugno di dollari” facendo il doppio gioco, sfruttandoli così per il proprio tornaconto. Le cose, però, non andranno lisce come previsto. Joe si ritroverà così invischiato in una pericolosa partita a scacchi con il nemico; dove a dare scacco matto sarà chi per primo saprà puntare al cuore.
Per un pugno di (diecimila) dollari: Kurosawa vs Leone
Per quanto rilevante nella storia del cinema, in realtà Per un pugno di dollari ha dalla sua uno strascico di non poco conto. Nell’estate del 1963, durante la lavorazione del peplum mai realizzato Le aquile di Roma, a Leone consigliarono di vedere Yojimbo/La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa. Un jidai-geki che raccontava di Sanjuro (Toshiro Mifune); un samurai che giunge in un villaggio sperduto dilaniato da una guerra tra famiglie per il controllo della comunità. Tra doppio gioco e gesti eroici, la spada di Sanjuro riporterà la pace nel villaggio.
Fu una folgorazione, tanto che – in preda all’entusiasmo – Leone chiamò a raccolta Duccio Tessari, Sergio Corbucci e Tonino Delli Colli; nel giro di qualche mese la sceneggiatura fu pronta. Il trattamento fu redatto nei primi mesi del 1964 sulla base del copione tradotto di Yojimbo.
E in effetti, al di là delle similitudini di sinossi, ve ne sono molte di più a livello di svolte narrative e di scelte registiche. Quello tra Per un pugno di dollari e Yojimbo è quasi uno shot-by-shot per certi aspetti; come l’entrata nel villaggio, o il preludio al final showdown, con la caduta dell’eroe, la cattura da parte dei villain e la sua resurrezione miracolosa.
A dire il vero, l’intento di Leone era quello di realizzare un remake effettivo di Yojimbo, ma la Jolly Film non pagò mai i diecimila dollari di compenso pattuiti per i diritti d’utilizzazione alla Toho Film. Si arrivò a una causa con Kurosawa che ottenne i diritti di distribuzione di Per un pugno di dollari nel mercato asiatico, e con il 15% degli incassi del film in tutto il mondo.
Il linguaggio filmico di Sergio Leone
La causa legale non va però ad inficiare il valore artistico di un’opera unica e dal peso specifico altissimo. Per un pugno di dollari riuscì nell’intento di ridare vita a un genere che era caduto nella sterilità narrativa attraverso un linguaggio filmico attuale, moderno – che oggi accosteremmo ai cinecomic della Marvel sul piano dell’intrattenimento. La rilettura ad opera degli spaghetti-western compiuta da Leone lavorò molto sul ritmo scenico; meno compassato rispetto al western classico – molto più netto, efficace e immediato.
La revisione del genere compiuta da Leone la si vede nel dinamismo dei duelli, nella spettacolarizzazione dei finali, nelle frasi ad effetto; negli espedienti con cui dar colore al personaggio – e di riflesso – sulla caratterizzazione degli agenti scenici.
I protagonisti di Per un pugno di dollari non sono eroi tutti d’un pezzo come il John T. Chance di John Wayne in Un dollaro d’onore (1959), ma anti-eroi come il Joe di Eastwood e il Ramon di Volonté; entrambi fatti della stessa pasta ma dalle parti opposte del conflitto scenico. In una declinazione della dicotomia bene/male fatta di luci e ombre, una boccata d’aria fresca nella scrittura western.
Si, ci troviamo certamente dinanzi a un plagio conclamato, ma la grande abilità narrativa di Kurosawa va di pari passo con la capacità registica di Leone. Il montaggio che non dà respiro nelle sequenze action; i particolari del viso; i primi e primissimi piani (i Leone); e i dettagli di pistole, stivali e sigari. Leone riesce a codificare una grammatica cinematografica per il genere spaghetti-western, esattamente ciò che fece Kurosawa con I sette samurai (1954) per il jidai-geki.
“Al cuore, Ramon“
La causa legale con Kurosawa; i produttori che non credevano nella riuscita del progetto; Eastwood che non era nemmeno la prima scelta nel ruolo, e Leone che pur di dare maggior credibilità Oltreoceano alla sua opera, scelse per lo pseudonimo esterofilo Bob Robertson. Il resto è storia. L’oramai celeberrima colonna sonora del compianto Ennio Morricone; il sigaro di Joe; il “panciotto antiproiettile“ poi citato nella saga di Ritorno al futuro (1985-1990) di Robert Zemeckis.
Nel duello finale, il Joe di Eastwood dice al Ramon di Volonté che per poter uccidere un uomo è al cuore che bisogna puntare. Ed è esattamente ciò che ha fatto Sergio Leone, puntando al cuore del cinema western, dandogli una nuova chiave di lettura. Il successo de Per un pugno di dollari è planetario, gettando così le basi per la “tematica” trilogia del dollaro comprensiva de Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966). Siamo nel 1964, Sergio Leone rilegge (impropriamente) Akira Kurosawa e realizza uno dei più grandi film di tutti i tempi.