Operazione Vendetta recensione film di James Hawes con Rami Malek, Laurence Fishburne e Michael Stuhlbarg [Anteprima]

Il secondo lungometraggio di James Hawes, Operazione Vendetta, conferma le ambizioni del suo esordio, One Life, uscito due anni prima.
Con una capacità unica di esplorare intensità emotive profonde, Hawes sa destreggiarsi tanto in un dramma storico sul nazismo quanto in un action thriller di spionaggio in stile anni ’90. In questo viaggio, un analista della CIA esperto in crittografia, dopo la morte della sua fidanzata in un attacco terroristico a Londra, decide di intraprendere una missione di vendetta personale, immergendosi in una caccia ai colpevoli che lo condurrà ben oltre le sue aspettative.
Bisogna ammettere che, sebbene la storia non brilli per originalità, il magnetismo del suo grande protagonista conferisce alla pellicola un motivo in più per essere guardata. Si tratta di una narrazione che, pur radicata in archetipi noti, riesce a imporsi parlando di altro, suscitando grande interesse.
Ciò che rende l’opera interessante è l’analisi introspettiva del suo protagonista, un uomo che, vissuto sempre nell’ombra, si ritrova travolto dalla brutalità della vita. Non a caso, il titolo originale The Amateur racchiude la storia di un uomo costretto a immergersi in un mondo che non ha mai interiorizzato né fatto suo.
La sua mancanza di abilità in tutto ciò che riguarda l’operazione di vendetta lo rende più vicino allo spettatore, aggiungendo un realismo palpabile a ogni azione. I combattimenti sono imperfetti, privi di una preparazione adeguata; la pistola non viene mai usata, poiché manca il coraggio – un aspetto che potrebbe sembrare un controsenso nel genere – e viene mostrato come, per scassinare una porta, il protagonista si affidi a tutorial su internet.
Man mano che l’aspetto action progredisce, veniamo subito messi in guardia: non potremo mai diventare qualcosa che non siamo.
Il lato drammatico risulta però il più riuscito: Operazione Vendetta può essere facilmente considerato un ritratto profondo della solitudine, prima maschile e poi anche femminile. Ci colpisce e ci distrugge, come se fosse nostra la perdita del protagonista.
La fuga che il protagonista compie lungo tutta la pellicola non sembra limitarsi soltanto agli antagonisti, ma riguarda qualcosa di più profondo: l’abitazione stessa. È una fuga dal passato, dal luogo in cui ha amato, da quello spazio dove le pareti hanno smesso di offrire protezione. Il silenzio vuoto e sospeso, carico del desiderio di un arrivo che non avverrà mai, sostituisce le parole della giovane donna.
Sembra emergere chiaramente che, per il protagonista, la paura della solitudine prevalga su quella della morte. Dopo aver costruito con grande impegno e abilità un contesto, uno scenario e i suoi protagonisti, è con la sua parte conclusiva che il lungometraggio prende una piega negativa, perdendo intensità e forza narrativa.
Il finale appare troppo veloce: didascalico e talvolta fastidiosamente conformista, con dialoghi che sembrano tradire la filosofia che il film intendeva trasmettere. E solo alla fine ci rendiamo conto che, pur avendoci intrattenuto e coinvolto, la storia si fonda su coincidenze che risultano eccessivamente romanzate e piatte.
Fin dalle prime inquadrature, si avverte il desiderio di espandere l’universo narrativo in più capitoli, e anche il protagonista, che nel finale prende il volo, sembra non esserne in disaccordo.