L’orto americano recensione film di Pupi Avati con Filippo Scotti, Rita Tushingham, Mildred Gustaffsson, Roberto De Francesco, Chiara Caselli e Massimo Bonetti [Venezia 81]
Il genere gotico e Pupi Avati sono ormai indissolubili: come in una delle più belle storie d’amore, si sono incontrati nel 1976 con La casa dalle finestre che ridono e non si sono mai realmente separati, nonostante una parentesi di pausa.
Tant’è che nel 2019, con Il signor Diavolo, Avati ha sentito il bisogno di tornare sui propri passi per raccontare ancora una volta storie e tematiche a lui care
Dopo un’ulteriore parentesi, Pupi Avati torna al gotico e lo fa con L’orto americano, tratto dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso regista e pubblicato nel 2019 da Solferino Libri. Il film, presentato fuori concorso al festival di Venezia, non solo rappresenta un ennesimo ritorno al genere che lo consacrò, ma anche un segno della sua voglia di sentirsi eternamente giovane e quindi nostalgico nei confronti di un passato cinematografico assai roseo.
Per indagare l’oscurità che si cela nell’animo umano, Avati affida questa volta il compito al giovane Filippo Scotti, già apprezzato nel film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio.
Trattandosi di un racconto nero, come ci aveva anticipato in un’intervista di pochi mesi fa in occasione del Love Film Festival, Pupi Avati costruisce un contesto narrativo tetro, ambientato tra l’Italia e gli Stati Uniti subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista, intrepretato da Scotti, si trova a interagire con una soldatessa statunitense, mentre un mistero spaventoso sta per prendere vita.
Utilizzando il bianco e nero, Avati sembra voler richiamare l’estetica di alcuni classici del cinema horror delle origini (Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau è forse il riferimento più evidente, ma se ne potrebbero citare altri). Tuttavia, il risultato finale risulta insoddisfacente, poiché non aggiunge nulla di significativo alla narrazione visiva, rivelandosi un mero esercizio di stile finalizzato a creare tensione attraverso una fotografia cupa.
Nonostante il soggetto di per sé interessante, il racconto non riesce mai a coincidere con la sua trasposizione cinematografica. Un arco narrativo incostante e, a tratti, altalenante genera solo un’inquietudine effimera.
Purtroppo, essendo sospeso tra realtà e fantasia, L’orto americano risulta un film indecifrabile dove si riesce con estrema fatica a seguire gli snodi della trama.
È talmente confusionario da far venire più di un dubbio agli stessi attori intrappolati in una storia senza capo né coda.
Flippo Scotti, dal canto suo, tenta in tutti i modi di tenere a galla un lungometraggio nefasto, ma le numerose lacune narrative compromettono quel poco di salvabile, inclusa la sua convincente prova attoriale.
Un film sfortunato, che lascia un senso di tristezza al termine della visione. Un’operazione riuscita solo in parte, colma di domande irrisolte, in cui l’estro artistico di Pupi Avati sembra smarrito.
A Il signor Diavolo si poteva perdonare una narrazione sconnessa, perché comunque possedeva un’anima e una visione cinematografica ben definita. Con L’orto americano, invece, è difficile dire lo stesso. E questo, francamente, dispiace.
Al maestro del gotico auguriamo comunque di tornare presto a raccontare storie simili con un diverso piglio registico. Fa male vederlo coinvolto in un’opera del genere, nonostante sia frutto della sua stessa concezione
Il trailer del film: