La parola ai giurati recensione del film di Sidney Lumet, con Henry Fonda, Lee J. Cobb, Jack Warden, Ed Begley, Martin Balsam, Jack Klugman e Robert Webber
Agli albori della carriera Sidney Lumet si guadagnò la nomea di regista veloce e metodico, attento al budget. Si specializzò nei cosiddetti drammi antologici. Programmi dal taglio storico-sociale che principalmente andavano a scandagliare la storia americana (e non) ricostruendone gli eventi più significativi. Ideò You Are There (1953-1972), tra le pietre miliari della Golden Age televisiva, convincendo il leggendario anchorman Walter Cronkite a prendervi parte come “voce della storia”. Diresse qualcosa come 200 episodi complessivi tra Kraft Television Theatre (1947-1958); Studio One (1948-1958); Playhouse 90 (1956-1961).
Soprattutto per la connotazione dei suoi esordi, Lumet sembrò quindi la scelta più adatta alla United Artists – e ad Henry Fonda nelle vesti di produttore – per adattare in forma filmica La parola ai giurati (1957).
Un esordio folgorante quello di Lumet. Magari meno d’impatto ma della stessa valenza di quello di Orson Welles e il “suo” Quarto potere (1941); padre del cinema moderno americano. Non fu però il cinema il suo primo medium. Ancor prima che strabiliante opera prima di Lumet, la sceneggiatura de La parola ai giurati di Reginald Rose approderà sul piccolo schermo. Nel 1954 infatti Franklin J. Schaffner lo adatterà nella forma del dramma televisivo nella prima puntata della settima stagione del sopracitato Studio One.
340.000 dollari per un successo, uno script per tutte le stagioni (e le lingue)
Ha inciso tantissimo quindi il passato registico televisivo di Lumet per la scelta di Fonda e Rose ma soprattutto la sua spiccata gestione delle risorse economiche (e non). La United Artists mise a disposizione appena 340.000 dollari. Cifra che per l’epoca, tenendo conto del differente peso della valuta, era sicuramente cospicua, ma sempre nell’ottica di un low-low-budget.
Una criticità a cui Lumet fece fronte in modo brillante. Ad esempio, per sfruttare particolari angoli di luce, alcuni dialoghi venivano estrapolati e girati “in parte” nella stessa giornata lavorativa. Ciò voleva dire che i controcampi della stessa conversazione sarebbero stati girati a distanza di giorni se non settimane. Le riprese furono completate in soli 17 giorni. Velocità realizzativa resa possibile da una serie di prove intensive a telecamere spente così da sfruttare meno pellicola possibile e al contempo creare autenticità, amalgama e sintonia tra gli attori.
Tante comunque le vite produttive de La parola ai giurati. Dal libero remake di Nikita Mikhalkov del 2007 dal quasi omonimo titolo, 12, caratterizzato dall’uso sovente di digressioni temporali e ambienti più ampi, al celeberrimo remake televisivo del 1997 diretto da William Friedkin.
Arricchito dalla presenza attoriale di volti come Jack Lemmon, George C. Scott, Courtney B. Vance, Hume Cronyn, Tony Danza, Edward James Olmos, James Gandolfini e William Petersen, la seconda vita de La parola ai giurati mantenne fede allo script di Rose e allo stile registico – e atmosfere – di Lumet, riuscendo però a correggere alcune evidenti problematiche dell’originale, come una maggior varietà etnica.
Nel cast figurano Henry Fonda, Lee J. Cobb, Jack Warden, Ed Begley, Martin Balsam, Jack Klugman, Robert Webber, John Fiedler, Edward Binnis, E.G. Marshall, Joseph Sweeney, George Voskovec; Rudy Bond e John Savoca.
La parola ai giurati: sinossi
Un ragazzo appena maggiorenne (John Savoca) dalla non ben chiara etnia è accusato dell’omicidio premeditato del padre. Il giudice (Rudy Bond) chiede alla giuria di discutere il proprio parere. Se il capo d’imputazione fosse accertato, porterebbe il giovane all’accusa di omicidio di primo grado. In più, visto che il giudice ha disposto che rifiuterà qualsiasi richiesta di grazia, la pena per il ragazzo sarebbe la sedia elettrica. Vista quindi la criticità della situazione, alla giuria viene chiesto di agire con metodo e cautela. C’è un problema però. Affinché possa essere raggiunto un verdetto, la legislazione statunitense prevede che la giuria sia unanime, in un verso o nell’altro.
La giuria è composta da dodici uomini, tutta gente semplice: un allenatore di una squadra di football americano molto equilibrato (Martin Balsam); un impiegato di banca remissivo (John Fiedler); il classico uomo d’affari, dogmatico e lievemente sadico (Lee J. Cobb); un razionale agente di borsa (E.G. Marshall). C’è poi un uomo mite dal lavoro non meglio precisato ma proveniente dai bassifondi (Jack Klugman); un venditore tifoso dei New York Yankees (Jack Warden); un architetto dai buoni propositi (Henry Fonda); e ancora un anziano, acuto osservatore (Joseph Sweeney); un proprietario di garage incline al razzismo (Ed Begley); un orologiaio immigrato (George Voskovec) e un direttore pubblicitario zelante (Robert Webber).
L’esito sembra chiaro e limpido: colpevole. Eppure, al momento della prima, frettolosa, votazione, il risultato è 11 a 1. Il dissidente è l’architetto, il Giurato numero 8. Inizierà così una battaglia dialettica per le sorti del presunto parricida in cui verranno discusse e ridiscusse molte delle certezze di vita degli stessi giurati.
Il produttore “infelice” Henry Fonda, le perplessità dinanzi alle scelte distributive della United Artists
Non ebbe un grande impatto all’epoca del rilascio in sala La parola ai giurati. Candidato a “soli” 3 Oscar 1958 (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale) l’esordio registico di Lumet rimase a guardare. Dovette infatti vedersela con un titano come Il ponte sul fiume Kwai (1957) che con 7 Oscar vinti fece piazza pulita consacrando la stella autoriale di David Lean. Non ultimo, l’opera di Lumet ebbe ben poco appeal commerciale, incassando pochissimo nella sua finestra distributiva.
A detta di Henry Fonda, che qui oltre che attore vestì i panni di produttore, la United Artists applicò una strategia di distribuzione non all’altezza: non ebbe mai la lungimiranza di ri-distribuire l’opera in sala dopo le nomination agli Academy Awards e l’unica volta che entrò nel circuito nazionale fu proiettato in sale non adatte a un film “piccolo”.
Nonostante quindi il flop commerciale, il mancato pagamento differito come accordi, e l’essersene andato a metà del primo screen-test, Fonda era in realtà molto orgoglioso del suo contributo filmico ne La parola ai giurati. Lo ritenne sempre tra i più grandi film a cui abbia mai preso parte al pari di Furore (1940) e Alba fatale (1942). Non a caso, quando fece per andarsene dalla sopracitata prima proiezione di prova, Lumet raccontò che Fonda si avvicinò a lui, sussurrandogli:
Sidney, è magnifico.
La carica valoriale del Giurato numero 8, lo scontro con il Giurato numero 3
Una simile discrepanza d’opinioni e azioni, è ascrivibile al ruolo del Giurato numero 8 di Fonda. Personaggio ormai mitologico che l’AFI’s 100 Years….100 Heroes and Villains, ha inserito al 28esimo posto tra i più grandi eroi della storia del cinema hollywoodiano. L’architetto dal vestito bianco dall’agire metodico votato alla ricerca della verità e del bene contro ogni ragionevole dubbio per mezzo del dialogo socratico. L’unico tra i dodici giurati di Lumet disposto, sin dal primo momento, a non buttar via la vita del giovane presunto parricida destinato altrimenti al fondo dell’abisso.
Agente scenico portatore sano d’inestimabili valori benevoli non dissimili dalla pacifica carica valoriale dell’Atticus Finch di Gregory Peck de Il buio oltre la siepe (1962); quintessenza degli eroi positivi a cui Fonda prestò volto e fattezze nella prima parte di carriera. Come le regole della narrazione c’insegnano però, per ogni eroe c’è bisogno di una nemesi. E per un eroe benevolo e brillante come il Giurato numero 8 si rendeva necessaria una controparte altrettanto malevola e famigerata: il Giurato numero 3 di Lee J. Cobb.
Se il Giurato numero 8 di Fonda è il primo infatti a provare a cercare la verità, a mettere in dubbio le opinioni degli altri undici giurati riconsiderando l’attendibilità delle prove, l’operato del giudice, perfino dell’avvocato della difesa, l’ultimo a rimanere sulla sua posizione è proprio il Giurato numero 3: sadico, dogmatico, ottuso, sbrigativo, emotivamente distaccato, violento. L’opposto valoriale del benevolo numero 8 che cede infine, nella struggente ed emotiva climax in cui si lascia andare a un pianto liberatorio.
Personaggi quindi che nel reticolato narrativo intessuto da Rose e Lumet sono si i simulacri della dicotomia bene/male e delle sue ragioni, ma solo in forma simbolica, velata; tanto da essere infine affievolita da quel giaccone poggiato sulle spalle con fare paterno che va a decretare la fine delle ostilità. Vestono semplicemente il ruolo di eroe e nemesi del conflitto de La parola ai giurati, ma in quell’arena, e solo per le sorti del presunto parricida. Fuori di lì sono semplicemente uomini comuni, ognuno con la propria vita, sogni, aspirazioni, marca di birra preferita e squadra di baseball per cui fare il tifo.
La parola ai giurati: il cinema claustrofobico del ragionevole dubbio
Ecco, nonostante la struttura corale e le sue tante anime e volti – su cui capeggiano il Giurato numero 1 e il Giurato numero 7 dei preziosi Balsam e Warden – in La parola ai giurati l’intero conflitto va progressivamente ad asciugarsi ad ogni step dialogico in un dualismo tra i sopracitati Giurati numero 3 e 8. Confronto dalla forbice valoriale netta ma che va via via a consumarsi con il dispiego del conflitto scenico. All’avvicinarsi della risoluzione infatti, Lumet associa, oltre che un ritmo dialogico sempre più netto e incisivo, una gestione delle lenti registiche progressivamente più cupa e claustrofobica.
In apertura di racconto infatti, la scelta di Lumet e del direttore della fotografia Boris Kaufman era quella di piazzare le telecamere al di sopra dello sguardo con delle lenti grandangolo. Espediente attraverso cui dare una sensazione di maglie larghe, come a dare maggior distanza tra i soggetti.
Con lo sviluppo del racconto l’inquadratura va a restringersi sempre più. L’occhio registico di Lumet passa così da piani medi leggeri e veloci a primi e primissimi piani pesanti con il fine di porre al minimo la profondità di campo. Questo fino alla climax e all’agognata unanimità di intenti. A quel punto, su stessa ammissione del regista de Quinto potere (1976), l’obiettivo si riallarga, dando infine libertà d’azione e leggerezza ai suoi interpreti.
Il disprezzo della dignità umana del Giurato numero 10: il cuore del racconto
Nella meticolosa costruzione d’immagine fatta di dissolvenze marcate che tra apertura e chiusura di racconto vanno a racchiudere, al loro interno, l’intera ratio filmica dell’opera, la narrazione de La parola ai giurati fa emergere sempre più la criticità del suo sottotesto: il disprezzo per la vita umana e la dignità della stessa. Lumet vi dà infatti consistenza declinandone i caratteri, ora nel non metterci mai al corrente dell’etnia del presunto parricida; ora nella leggerezza con cui lo si vorrebbe mandare alla forca per la fretta d’andare allo stadio a vedere gli Yankees; ora sulla base di pregiudizi razziali dolorosamente senza tempo.
Elemento quest’ultimo di cui pur non dandoci specifici indizi, Lumet ne fa emergere la portata distruttiva dallo sporco riflesso desunto dalle orribili parole del Giurato numero 10 di Begley. Un agire di fatto ignobile (ma sempre più attuale) a cui tutti si oppongono in un linguaggio del corpo che vale molto più di mille parole, superando i confini del tempo per cristallizzarsi nella memoria comune.
Non a caso, a condannare in forma dialettica – sempre con parole misurate e sagge – il deprecabile Giurato numero 10, non può che essere l’agente scenico di Fonda; la coscienza del racconto:
È difficile mantenere i pregiudizi personali al di fuori di queste cose. Quando questo accade il pregiudizio offusca sempre la verità. Io non so quale sia la verità, e immagino che nessuno di noi lo saprà mai. Nove di noi ora sembrano ritenere che l’accusato sia innocente. Ma stiamo solo basandoci su delle probabilità. Possiamo sbagliarci. Stiamo forse cercando di lasciar libero un colpevole. Non so. Nessuno può saperlo. C’è in noi un ragionevole dubbio. E ciò è d’importanza capitale nel nostro sistema. Nessuna giuria può condannare un uomo se non è più che certa. E noi nove non comprendiamo come voi tre siate ancora così sicuri.
La prova del tempo di un’opera immortale
È un kammerspiel marcato e dal ritmo teso La parola ai giurati. Un’opera dai contenuti traslabili ben oltre la dimensione narrativa abilmente costruita da Lumet e Rose che rivive oggi nel suo insito valore pedagogico di problem solving tra workshop di tecniche di risoluzione dei conflitti e dinamiche di squadra.
D’altronde, se il botteghino del 1957 ne decretò lo status di opera si d’enorme rilevanza ma poco proficua – probabilmente perché in controtendenza tra l’esplosione del technicolor e delle narrazioni kolossal – la prova del tempo dimostra come il linguaggio filmico moderno di cui si fregia la narrazione di Sidney Lumet nel cucire addosso alla carica valoriale dell’eroico e zelante Giurato numero 8 di Henry Fonda un messaggio di tolleranza e rispetto verso la dignità umana, finisce con l’essere più attuale oggi che non al momento del rilascio in sala. Un autentico manuale di narrazione registico-dialogica: un capolavoro senza tempo.