La febbre del sabato sera recensione del film di John Badham con John Travolta, Karen Lynn Gorney, Barry Miller e Donna Pescow
Nella metà degli anni Settanta John Travolta era pressoché sconosciuto. Giusto i fan della prima ora di Brian De Palma avrebbero potuto riconoscere la sua inconfondibile mimica nel Billy Nolan di Carrie – Lo sguardo di Satana (1976). La svolta arrivò l’anno successivo quando l’altro quasi esordiente – John Badham (Wargames, Tuono Blu, Corto circuito) – gli affida il ruolo da protagonista in La febbre del sabato sera (1977). Il successo è planetario.
Le sequenze di ballo oramai leggendarie; la versatilità di Travolta come ballerino e interprete drammatico; l’iconicità del personaggio di Tony Manero e un linguaggio filmico attuale e moderno. Il valore de La febbre del sabato sera è oltre ogni immaginazione, ma nulla sarebbe stato possibile senza la colonna sonora dei Bee Gees.
Con più di 40 milioni di copie vendute in tutto il mondo, la colonna sonora più venduta di tutti i tempi – prima dell’arrivo di Thriller (1982) di Michael Jackson – La febbre del sabato sera è riuscito a incidere così tanto nell’immaginario collettivo da guadagnarsi ben due opere derivate. Un musical “all’italiana” nel 2012, e un sequel dal titolo Staying Alive nel 1983, diretto da Sylvester Stallone – in un’epica del self-made-man alla Rocky, incapace però di ripetere il successo del suo predecessore.
La febbre del sabato sera: sinossi
Nella Brooklyn degli anni Settanta un giovane italo-americano di nome Tony Manero (John Travolta) lavora come commesso in un negozio di vernici, vive con i genitori e ha un talento immenso per la danza. Ogni sabato sera, con gli amici Joey (Joseph Cali), Double J (Paul Pape), Gus (Bruce Ornstein) e Bobby C. (Barry Miller) va a ballare al 2001 Odissey dove s’è guadagnato il rispetto della comunità venendo perfino venerato come il “Fred Astaire di Brooklyn“. Adorato dalle donne, gioca con tutte, soprattutto con Annette (Donna Pescow) senza mai correre il rischio d’innamorarsi.
La situazione familiare non è delle più rosee però. Tony è infatti il figlio di mezzo di Frank Manero (Val Bisoglio) e Linda Manero (Lisa Peluso), una tipica famiglia italiana patriarcale e religiosissima in cui si sente un pesce fuor d’acqua. Tra bravate e gare da ballo, l’incontro con Stephanie Mangano (Karen Lynn Gorney) e il ritorno a casa del fratello Frank Jr (Martin Shakar) metteranno in dubbio molte delle sue convinzioni.
L’abilità narrativa di Badham e la costruzione del personaggio
Scritte rosse – nei titoli di testa – come rossa la camicia; il sugo della pizza ai lati della bocca, le scarpe e la latta di vernice, e il far girare la testa a (quasi) tutte le donne. Bastano pochi attimi a Badham per presentarci il Manero di John Travolta e il contesto scenico-narrativo nel quale vive. Tra un lavoro senza sbocchi, e una famiglia che non lo capisce, la discoteca diventa così il ritrovo, l’appartenenza culturale, e il ballo il linguaggio con cui comunicare con i suoi simili.
La grande abilità di narratore di Badham la si evince da piccoli particolari. Sulle note dei Bee Gees assistiamo ai preparativi per la serata, in un’autentica celebrazione solenne. Tra dettagli del phon; dei poster di Bruce Lee, Rocky e Farrah Fawcett, Manero si trasforma. Pettina con cura il ciuffo, pone con estrema attenzione la catenina d’oro intorno al collo, sceglie i vestiti in base all’ispirazione. Da semplice commesso intrappolato in una vita senza futuro, diventa un “combattente” della pista da ballo.
Emblematica, in tal senso, la sequenza di montaggio alternato con cui assistiamo alla lenta transizione tra il contesto familiare e quello “da ballo”. Badham sceglie una regia dinamica fatta di piani medi e inquadrature dal basso verso l’alto con cui esaltare la figura di Tony Manero e la solennità del rito di preparazione.
Il contesto familiare, fortemente stereotipato nella dimensione d’italianità fatta di spaghetti e braciole a cena e d’ipocrita religiosità, è quello di una società patriarcale. Litigiosi; polemici; con l’uomo “che deve portare a casa il pane”. Emerge così, tra le luci al neon dei locali di Brooklyn, un forte contrasto nella dimensione caratteriale-narrativa del Manero di Travolta. Passivo all’autorità paterna e bambinesco in casa; dinamico; spaccone; autentico trascinatore sulla pista da ballo con gli amici. In un’audace riflessione – molto evocativa di Shoplifters (2018) di Hirokazu Koree’da – su come i legami che creiamo sanno essere d’eguale intensità di quelli di sangue.
“Sei il Re in pista Tony!”
È sulla pista da ballo che Manero si trasforma. Sensuale, audace, fluido. Il ballo gli dà una ragion d’essere. Abbraccia la gente; acquista carisma; bacia; balla con più donne in una serata e ne fa ingelosire un paio. Con il dispiegarsi dell’intreccio scenico de La febbre del sabato sera, il racconto s’arricchisce di relazioni complementari, essenziali per la crescita caratteriale di Manero e per il contesto narrativo. L’incontro con Stephanie prima, e con il ritorno del fratello Frank Jr, permettono a Manero di acquisire consapevolezza e di accettare – riconoscendo i propri limiti e punti di forza – il proprio ruolo nel mondo, ora nella dimensione artistica ora all’interno della famiglia.
Nel terzo atto la posta in gioco de La febbre del sabato sera s’innalza considerevolmente tra bravate, guerre tra bande e gare di ballo sino alla climax con cui si chiude il racconto. Il volto tumefatto e turbato di Manero trasuda del dolore di un uomo intrappolato in una vita d’immaturità e di un talento che gli ha permesso soltanto di conquistare onere e gloria fini a se stessi.
Tra diner, locali notturni e sale da ballo, la Brooklyn diurna e notturna dalle tante contraddizioni sociali de La febbre del sabato sera prende vita nella regia di Badham con cui valorizzare al massimo l’intensità recitativa di Travolta e le sue abilità fisiche. Dall’emancipazione femminile; all’immaturità; al tema dell’aborto; delle minoranze; sino allo stupro e la contraccezione; La febbre del sabato sera arricchisce la sua narrazione di un sottotesto multistrato, con cui Badham riesce a consegnare – ai posteri – una realistica fotografia senza tempo dei gloriosi anni Settanta, al ritmo di Disco Duck (1976) e More than a woman (1977).
La febbre del sabato sera: Siamo tutti Tony Manero
L’efficacia del racconto de La febbre del sabato sera, sta esattamente nell’intrinseco valore delle tematiche trattate. Dietro la colonna sonora dei Bee Gees le luci al neon e le movenze sinuose cucite addosso al bel faccione di John Travolta c’è ben altro. C’è la crisi dell’uomo e l’incapacità di trovare un posto nel mondo. C’è però, anche la volontà di cambiare; di aver compreso l’immaturità di chi sta intorno, e di affrontare il destino a piene mani.
Poco importa del finale aperto, degli archi narrativi della famiglia Manero mal gestiti e di cui la sceneggiatura sembra quasi dimenticarsi nella risoluzione del conflitto. La febbre del sabato sera è un manifesto generazionale e non soltanto di chi è cresciuto negli anni Settanta; ma di tutti quelli dotati di un talento speciale che sembra non condurli da nessuna parte. Meglio se ballando.