L’inferno di cristallo recensione del film diretto da John Guillermin e Irwin Allen con Paul Newman, Steve McQueen, Faye Dunaway, William Holden, Fred Astaire e Robert Wagner
Pur manifestandosi già tra allegorie fantascientifiche e commedie nere anti-militariste del calibro de L’ultimo uomo della Terra e Il dottor Stranamore (1964), ma la “vera” stagione del disaster movie ha inizio soltanto a partire dai primi anni settanta. Ad aprire le danze del genere è stato l’immortale Airport (1970), capostipite della fortunata quadrilogia (1970-1979), che in un decennio pose le basi della grammatica filmica del genere. A consolidarla però, c’ha pensato Irwin Allen con il suo formidabile dittico produttivo: L’avventura del Poseidon (1972) di Ronald Neame e proprio L’inferno di cristallo (1974), diretto da John Guillermin (e dallo stesso Allen nelle sequenze action).
Punto più alto dei disaster movie degli anni settanta, genere che cavalcherà a risultati alternati correnti new-hollywoodiane sempre più variegate, L’inferno di cristallo rappresenta un’interessante anomalia produttiva. È infatti una co-produzione 20th Century Fox e Warner Bros nata come ipotetico patto di non belligeranza distributiva.
Nel 1973 infatti, la Warner annunciò l’acquisto dei diritti cinematografici de La torre (1973) di Richard Martin Stern dopo una battaglia di diritti assieme a 20th Century Fox e Columbia. Circa otto settimane dopo, la stessa Fox acquistò i diritti de L’inferno di cristallo (1974) di Thomas N. Scortia e Frank M. Robinson. Un clone letterario de La torre che a detta di Allen presentava:
Lo stesso tipo di personaggi; lo stesso contesto scenico; la stessa storia e la stessa, identica, conclusione.
Forte del successo agli Oscar de L’avventura del Poseidon, Allen – che per inciso era produttore agli ordini della Fox – convinse gli executives di ambo le major ad unire le forze. Temeva infatti che La torre e L’inferno di cristallo si sarebbero equivalse, al punto da far pensare ad un’emulazione; oltre al rischio altissimo di un’improduttiva “guerra al botteghino” tra due pellicole pressoché identiche. Propose così loro un’idea produttivamente soddisfacente con cui scongiurare il doppio rischio flop da ambo le parti: far confluire entrambi i progetti in un unico script (scritto poi da Stirling Sillphant) dividendo i costi di produzione equamente.
Il rischio emulazione, l’annuncio pionieristico, la rivalità Newman-McQueen
Nell’ottobre 1973 venne indetta una conferenza stampa in cui si annunciò il pioneristico evento; qualcosa di mediaticamente molto simile a quanto fatto nel 2016 da Marvel e Sony per lo Spider-Man di Tom Holland, seppur dalla differente inerzia: due major che uniscono le forze al servizio del pubblico-consumatore.
Il grande vantaggio fu soprattutto il poter accedere a un cast di nomi di prim’ordine, dai ruoli principali ai comprimari. Come facilmente prevedibile però, sorsero problematiche di ogni genere. Newman e McQueen pretesero di fare gli stunt da sé, al punto che lo stesso interprete di Bullitt (1968) aiutò lui stesso i “veri” pompieri; Astaire scrisse una canzone ma venne rifiutata perché ritenuta troppo “old-fashioned“; la Dunaway puntualmente in ritardo per poi essere messa in riga da un Holden con cui, ironicamente, farà coppia due anni più tardi in Quinto potere (1976).
La più esilarante riguarda però la rivalità al testosterone tra McQueen, Newman e in minor misura Holden. Tutti e tre volevano essere top-billed; cosa che venne garantita ai primi due (1 milione a testa e il 10% degli incassi) ma non a Holden, non più in spolvero come negli anni cinquanta wilderiani. Tra McQueen e Newman nacque una sana rivalità da star – definita però dall’interprete di Butch Cassidy (1969) insopportabile – che si tradusse in piccoli capricci.
Oltre agli stunt, entrambi volevano ad esempio essere il primo nome nei titoli di testa; nella locandina promozionale; perfino nel numero di battute pronunciate. Ironicamente però, la presenza di Newman sul set nacque proprio su iniziativa “indiretta” di McQueen. In linea di principio infatti, il ruolo di architetto l’avrebbe dovuto interpretare lui con Ernest Borgnine nei panni del capo-pompiere. A quel punto però l’iconico Capitano Hilts de La grande fuga (1963) s’impose affermando come:
Se qualcuno del mio “calibro” può interpretare l’architetto, io farò il capo-pompiere.
Nel cast figurano Paul Newman, Steve McQueen, Faye Dunaway, William Holden, Fred Astaire, Robert Wagner, O.J. Simpson; e ancora Jack Collins, Richard Chamberlain, Jennifer Jones, Susan Blakely, Robert Vaughn e Susan Flannery.
L’inferno di cristallo: sinossi
A ridosso del Natale, a San Francisco è in programma l’inaugurazione dell’edificio più alto del mondo: 138 piani, 550 metri d’altezza. Ideato e finanziato da James Duncan (William Holden) su progetto di Doug Roberts (Paul Newman); architetto prossimo al matrimonio con Susan Franklin (Faye Dunaway), del CdA di Duncan. Alla cerimonia presenzia la crème de la crème della società: il sindaco Ramsay (Jack Collins); il senatore Parker (Robert Vaughn); vip e potenti di ogni specie; ma anche Harlee Claiborne (Fred Astaire), truffatore sfortunato e dall’animo gentile.
Poco prima dell’inizio della cerimonia però, Roberts nota come l’impianto elettrico non sia all’altezza degli standard. Ad occuparsene in modo meticoloso sarebbe dovuto essere Roger Simmons (Richard Chamberlain); genero di Duncan, marito della sua prima figlia, Patty (Susan Blakely). L’impianto si surriscalda; un principio d’incendio all’81esimo piano; un magazzino con materiali altamente infiammabili; sensori anti-incendio che non rispondono adeguatamente. Di lì a poco, la festa diventa l’apertura delle porte di un inferno infuocato. Soltanto i vigili del fuoco del Capitano Mike O’Halloran (Steve McQueen) riusciranno a mettere ordine su di una potenziale catastrofe.
L’inferno di cristallo: punti di vista scenici tra protagonisti e deuteragonisti
Una delle principali recriminazioni di Paul Newman in merito alla rivalità con Steve McQueen fu che ne L’inferno di cristallo, a un certo punto, è come se la presenza scenica dell’architetto venisse depotenziata dall’arrivo del capo-pompiere al 43esimo minuto della pellicola. Per certi versi in effetti è così. Specie perché nelle prime battute di racconto Guillermin dà enorme spazio alla dimensione caratteriale di Doug Roberts. Agente scenico magari stereotipato e poco originale, ma indubbiamente portatore sano di valori e dalla caratterizzazione ben delineata.
L’intero incipit infatti, oltre a garantirne competenza, temperamento e carisma (grazie a un eccellente Newman), risulta funzionale nel determinare quelle poche dinamiche relazionali giusto appena accennate, rarefatte; su cui però poggerà l’intera inerzia del racconto. Quella con la Franklin della Dunaway ad esempio, è da manuale. In appena due battute, Guillermin costruisce un background caratteriale da donna moderna da cui trapela il conflitto interiore tra unità familiare e auto-determinazione lavorativa, avvolgendolo in una dinamica di carismatica tensione sessuale.
Lo stesso dicasi con il Duncan di un Holden leggermente adombrato dal dispiego dell’intreccio – un comprimario a pieno titolo – la cui inerzia relazionale poggia tutta su un piccolo espediente “d’equivoci” tra orgoglio e workaholic degno de La signora del venerdì (1940). Con l’ingresso scenico del capo-pompiere di McQueen però – effettivo doppio caratteriale/valoriale dell’architetto ma dalla differente declinazione – tutto muta; non a caso ambo i top-billed avranno lo stesso numero di battute nonostante il differente minutaggio.
Qui emerge tutta l’arguzia della narrazione de L’inferno di cristallo che nel tuffarsi nell’irto terreno “di genere” disaster gioca proprio con il brillare delle stelle del suo firmamento hollywoodiano. Guillermin e Allen aggiungono una nuova voce narrativa al proprio racconto. Una nuova coscienza, punto di vista scenico, che lungo lo sviluppo del racconto vede accrescere la propria dimensione individuale da deuteragonista a co-protagonista; lavorando di riflesso su quella dell’architetto che vede un progressivo depotenziamento all’inverso.
Consolidare la grammatica filmica del disaster movie: la valenza del fuoco nell’economia del racconto
A guadagnarci è proprio L’inferno di cristallo che giunto al corpus centrale del racconto, muta sagacemente i contorni e gli stilemi della sua narrazione sulla base della fisionomia dei suoi protagonisti; in altre parole: nasce come film di Paul Newman per svilupparsi come film di Steve McQueen. Nell’arrivarci però, nel giocare a ping-pong narrativo tra le dimensioni caratteriali dei suoi agenti scenici, Guillermin e Allen lasciano crescere in modo armonico la componente disaster dotandola di uno sviluppo calcolato.
L’intero primo atto ad esempio vive di piccoli inconvenienti e tecnicismi che conferiscono al racconto un marcato realismo; oltre che una posta in gioco altissima e apparentemente irrisolvibile: l’elettromagnete G-12 di riserva; generatore ausiliario che va in avaria; l’impianto anti-incendio che non lavora a dovere; perfino di un arguto esempio di regia da narratore onnisciente che tra una soggettiva veloce e dinamica e una delicata dissolvenza, ci porta dinanzi alla miccia che dà il via al disastro tra corto circuito e materiale infiammabile.
La valenza filmica de L’inferno di cristallo, tuttavia, è da ricercarsi non tanto nella resa scenica della componente disaster, realistica si, e colorata di tutti i topos sociali di genere, ma proprio perché appartenente a un genere ancora acerbo caratterizzata di una regia più vicina al respiro del cinema drammatico/melò che non di tipo action; quanto nella connotazione cucitagli da Guillermin e Allen.
L’infuocata tragedia che prende piede ne L’inferno di cristallo lungo i suoi 138 piani risulta narrativamente purificatrice e dalla carica trasformativa. Va a mutare infatti l’inerzia delle dinamiche relazionali poste in essere dando colore e profondità caratteriale non tanto nei protagonisti, quanto nei personaggi di contorno: i Wagner, Astaire, Chamberlain per intenderci. Un evidente paradosso narrativo “benevolo” per cui se è vero che l’intera narrazione affonda le sue radici sul carisma “a montaggio alternato” di Newman e McQueen, è grazie al sacrificio d’amore del Bigelow di Wagner; alla dolce redenzione del Claiborne di Astaire; nonché della maschera goffmaniana gettata dal Simmons di Chamberlain ad acquisire spessore e sviluppo armonico.
Non il migliore ma il più importante disaster movie della sua epoca
Se rapportato alla storia del genere, il più importante e migliore sarebbe certamente Titanic (1997); se non altro per il peso specifico avuto nell’opus di James Cameron; nella storia del cinema; nonché in quella degli Oscar con 11 vittorie su 14 nomination nell’edizione 1998 tra cui Miglior film e Miglior regista. Ma se parliamo degli albori del disaster movie, è indelebilmente il sopracitato L’avventura del Poseidon il picco creativo; anche fosse per la sua natura da kammerspiel nautico che vede sugli scudi la coppia Hackman–Borgnine.
Spesso confuso con il quasi omonimo Trappola di cristallo (1988); omaggiato quasi interamente in Skyscraper (2018), il merito de L’inferno di cristallo è quello però di aver definitivamente consacrato il disaster movie nel cinema che conta; specie considerando la sua natura relativamente giovane per l’epoca. L’opera di Guillermin e Allen infatti, oltre al nutrito gruppo di stelle da far invidia a qualsiasi casting director, riuscì a vincere 3 Oscar a fronte di 8 nomination all’edizione del 1975 tra cui Migliore fotografia, Miglior montaggio, Miglior canzone. Dando infine un’insperata consacrazione dorata a quel Fred Astaire snobbato nei suoi anni d’oro musicali, per poi ritrovarsi celebrato con la nomination da Miglior attore non protagonista, per il suo animo da gentil truffatore.