Final Destination: Bloodlines recensione film di Adam Stein e Zach Lipovsky con Kaitlyn Santa Juana, Teo Briones e Owen Patrick Joyner [Anteprima]
Il sesto capitolo di Final Destination non mostra alcuna intenzione di arrendersi. Si presenta con una forte volontà di proseguire, spinto da ambizioni sempre più audaci e innovative – talvolta persino eccessive – riflettendo le aspettative e l’affetto di quei fan che, da venticinque anni, seguono con passione il percorso del franchise fin dal primo lungometraggio.
In questa nuova avventura, che segna il ritorno della saga dopo quattordici anni, la protagonista Stefanie (Kaitlyn Santa Juana) è una studentessa universitaria tormentata da incubi ricorrenti riguardanti un disastro avvenuto negli anni ’60: il crollo di una torre. Solo successivamente la ragazza scoprirà che questi sogni sono connessi a una premonizione vissuta da una persona a lei profondamente legata.
Ciò che risulta immediatamente difficile nell’opera è trovare un incipit che possa competere con quelli dei capitoli precedenti (l’incidente aereo del primo, quello automobilistico del secondo, il parco divertimenti del terzo, la gara automobilistica del quarto e il crollo del ponte del quinto).
Il crollo della torre che dà inizio alla storia ha la sfortuna di apparire più suggestivo nel raccontarlo che nel rappresentarlo, con elementi che fin da subito risultano forzati e poco credibili.
Già dalle prime inquadrature, ci rendiamo conto che, pur mantenendo una certa continuità con i capitoli precedenti, il film si inserisce in una dimensione cinematografica fortemente contemporanea, con una fotografia e una componente tecnica che erano impensabili nei primi lungometraggi della saga.
Final Destination: Bloodlines è senza dubbio il capitolo più diluito della saga, considerando che l’essenza dell’opera – ciò che il pubblico attende con maggiore trepidazione – arriva solo dopo quasi un’ora di proiezione; la narrazione, più articolata del solito, esplora non solo i consueti temi del genere, ma anche sfumature drammatiche inaspettate.
La nuova pellicola della celebre saga si distingue per l’efficacia delle sue scene cult, ma rivela anche l’ambizione, poco riuscita, di affrontare tematiche più ampie, risultando spesso superficiale e confusa, fino a rendere il tema portante della famiglia fastidiosamente incoerente.
Zach Lipovsky e Adam B. Stein, al loro esordio come registi all’interno della saga cinematografica, firmano un lungometraggio che si sviluppa su un arco narrativo ben lontano dai precedenti che ruotavano attorno al tema dell’unione. I personaggi dialogano, si scambiano sguardi, condividono emozioni e si proteggono a vicenda, ma tutto appare privo di vivacità ed eccessivamente impersonale, come se mancasse una vera spinta emotiva o una tensione genuina.
La saga sembra prepararsi a un nuovo inizio, ma con un film che, pur offrendo un intrattenimento discreto, risulta meno definito e memorabile. Piuttosto che rappresentare un capitolo autentico della saga, appare come un tentativo di emulare i capitoli più audaci e innovativi, risultando più soddisfacente sotto l’aspetto visivo che narrativo, con morti sempre più elaborate e un’imprevedibilità che diventa la vera protagonista del film.