El Dorado recensione del film di Howard Hawks con John Wayne, Robert Mitchum, James Caan e Charlene Holt
Era il 1959 quando Howard Hawks, con Un dollaro d’onore, realizzò la risposta filmica a Mezzogiorno di fuoco (1952); a suo dire veicolante messaggi anti-americani e anti-patriottici. Il concept è dei più semplici, cinema d’assedio, uomini imperfetti dilaniati dai propri errori, e l’amicizia come carburante del racconto. Nel mezzo un’esibizione musicale, l’umanità del volto di Dean Martin, un John Wayne granitico ed empatico, e un Walter Brennan nel ruolo della vita. Un’opera capace di travalicare la cornice western di riferimento, in un misto di magia e musicalità risultando, ancora oggi, tra i più grandi film americani di tutti i tempi. Un concept vincente quindi, di cui Hawks era pienamente consapevole tanto da avervi cucito addosso ben due remake, El Dorado (1967) e – in minor misura – Rio Lobo (1970), il cui anello di congiunzione è sempre lui: John Wayne.
Cambiano gli interpreti intorno, da Dean Martin passando a Robert Mitchum sino al modesto Jorge Rivero, ma soprattutto le atmosfere sceniche; dalla magia musicale di Un dollaro d’onore, al puro western di El Dorado, sino all’elegia romantico-etnica di Rio Lobo. Ogni concept ha un sapore unico, ben definito, che partono con un differente prologo e backstory caratteriale, per poi raggiungere il cuore del racconto del cinema d’assedio; cuciti addosso al cappello a visiera, la camicia blu, il gilet marrone, la benda rossa, e il volto rassicurante di Wayne, la costante dei western hawksiani.
Da Scarface a Un dollaro d’onore: un cinema in continua evoluzione
Il cinema di Howard Hawks rappresenta, senza dubbio, tra le filmografie più rilevanti del cinema classico-moderno americano. Da Scarface – Lo sfregiato (1932), a Il grande sonno (1946) passando per La signora del venerdì (1940) e Il sergente York (1941); la lista di pietre miliari firmate da Hawks è pressoché infinita. Questo per via dell’intrinseca carica rivoluzionaria del suo opus, un cinema in evoluzione per oltre tre decadi; incidendo ora nel redarre la grammatica filmica di generi come la commedia brillante, ora ridefinendola – come nel caso del noir – dandovi un apporto, un punto di vista, con cui consegnarsi all’immortalità cinematografica.
Così, nel caso del western, se John Ford, tra Ombre rosse (1939) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) lo si può considerare, a pieno titolo, come il padre del genere, Hawks è un po’ lo zio. Opere come Il fiume rosso (1948) – autentico crocevia nella carriera di Wayne – e soprattutto il sopracitato Un dollaro d’onore infatti, hanno saputo trascendere il genere; imponendosi, ora come un solido dramma padre-figlio, ora come – probabilmente – il più bel film sull’amicizia mai realizzato.
El Dorado: sinossi
Un pistolero di professione, Cole Thornton (John Wayne), trova ingaggio presso l’allevatore Burt Jason (Edward Asner). L’incarico consiste nell’aiutare Jason ad appropriarsi, con la forza, delle terre lungo la valle di El Dorado; al fine di farne un unico pascolo. Giunto in paese, Thornton incontra il suo vecchio amico e ora sceriffo del paese, J.P.Harrah (Robert Mitchum).
Qui Thornton scoprirà come le intenzioni di Jason sono tutt’altro che pacifiche; spinto dal senso d’onore infatti, il pistolero lascerà l’incarico restituendogli l’anticipo ricevuto per l’ingaggio. Lungo la strada di ritorno però, Thornton subisce un incidente. Il giovane Luke MacDonald (Johnny Crawford) gli spara temendo che potesse essere uno degli uomini di Jason; il colpo non va a segno ma la risposta di Thornton. Scoperto l’equivoco, Thornton porta il cadavere di Luke dal capofamiglia (R.G. Armstrong) che lo prende in consegna comprendendo la gravità della situazione; chi non crede alle parole di Thornton è però la figlia di mezzo Joey (Michele Carey), che sorprende Thornton colpendolo alle spalle con una fucilata.
Barcollante, Thornton riceve le cure del caso in città, per poi partire l’indomani. Mesi dopo, il pistolero verrà a sapere che lo sceriffo Harrah è tornato ad attaccarsi alla bottiglia e che El Dorado è diventata terra di caccia per gli uomini di Jason; per Thornton significa imbracciare nuovamente il fucile, e portare la pace nella graziosa cittadina di frontiera.
Chance e Thornton, Dude e Harrah: rileggere Un dollaro d’onore
“So ride boldly ride at the end of the rainbow”, recita così il ritornello della canzone che ascoltiamo in apertura di El Dorado; aggiungendo una nota malinconica a una serie di quadri tematici, in quello che è sia elegia al western classico, ma anche saluto di commiato di un genere ormai agli sgoccioli. Connotazione ravvisabile sin dallo stesso concept, con cui Hawks rilegge il sé stesso nella miglior forma possibile; caratterizzando la narrazione di minor musicalità rispetto a Un dollaro d’onore, ma di un maggior respiro western.
Nella camminata solitaria del Dude di El Dorado, il Jimmy Harrah di Mitchum, Hawks pone subito una caratterizzazione oppositiva rispetto al personaggio di Dean Martin. Laddove in Dude permeava l’imperfezione, e l’incapacità di accettare un amore perduto – sviluppandone la crescita nella trasformazione del racconto; Harrah è invece sicuro, fiero, competente – in un’avanzata nel villaggio che ne denota rispetto e accettazione comune, che va ad opporsi alla “sputacchiera silenziosa” de Un dollaro d’onore.
Il gioco di opposizioni prosegue con il Cole Thornton di Wayne, svestito della stella di sceriffo e “dall’altra parte della barricata”; in uno sviluppo del racconto con cui Hawks cuce, con pochi espedienti dialogici, un solido background caratteriale, relazionale e di contesto scenico. Amicizia e gelosia sotterrata, una donna in comune, un retaggio. In appena una sequenza Hawks disegna personaggi vivi, vibranti, veri in modo semplice e netto. Espediente essenziale per porre da subito le basi drammaturgiche del conflitto scenico, trovando così esplicitazione nella dinamica relazionale da “uomini d’onore” con il Jason di Asner. Una somma di denaro restituita, un incarico lasciato, un campo e controcampo con Wayne a cavallo; Hawks rivitalizza la componente antagonistica rispetto al precedente Un dollaro d’onore, denotandola di maggior spessore e contorni.
Poi un imprevisto parallelo e funzionale alla narrazione principale, un colpo in pancia e uno alla gamba; depotenziando l’agente scenico di Wayne e alzare sensibilmente la posta in gioco. Così facendo infatti, Brackett e Hawks, compiono un sagace lavoro di “privazione” caratteriale attraverso una differente trovata.
El Dorado: meno musicalità e più western
Se nell’opera del 1959, Hawks la colmava per mezzo della polarità relazionale del suo “anti-Mezzogiorno di fuoco”, in El Dorado il processo è più fisico e marcato; nella componente alcolica “d’amore” che emerge alla distanza e dall’evoluzione più graduata. Lo sviluppo del racconto permette a Hawks di allargare le maglie relazionali, a partire dall’ingresso scenico del Minnesota di Caan; rilettura del Colorado di Nelson de Un dollaro d’onore dall’arco narrativo più solido, la cui ratio è un po’ il simulacro della differente sfumatura di racconto. Uno switch evidente, quello tra Colorado e Minnesota, che è anche il passaggio dalla musicalità dell’opera del ’59 e quella del ’67; rendendo così El Dorado più “western classico” ma senza quell’aura magica (e unica) di momenti come My rifle, my pony and me.
E non solo, il dispiego dell’intreccio, tra delicate digressioni temporali e nuove mete, permette a Hawks di riscrivere quella sensazione claustrofobica “d’assedio” tra le mura di Rio Bravo; a cui il cineasta di Susanna (1938) oppone spazi aperti e un topos del viaggio appena accennato, e perlopiù dedotto.
Laddove in un Sentieri selvaggi (1956), ad esempio, il viaggio permea totalmente il racconto e ne caratterizza gli archi di trasformazione, in un western hawksiano come El Dorado questa è solo una delle tante componenti. Una vivacità narrativa che permette di giocare tra passato e presente, defezioni fisiche e dell’anima – e cowboy con un cilindro in testa. È nel terzo atto, però, che El Dorado torna nella sua dimensione “da Un dollaro d’onore”, ora nell’evoluzione di Harrah in un novello Dude distrutto dalle pene d’amore; ora nelle dinamiche d’assedio – nella ricostruzione della dignità del primo che trova compimento in un final showdown fatto di corpose sequenze action di puro respiro western.
Il più fordiano dei western di Howard Hawks
Duelli frenetici caratterizzati da un uso intelligente della fotografia in notturna, un topos del viaggio saggiamente declinato a più riprese, digressioni temporali e caratterizzazioni sporche; El Dorado nasce come remake di uno dei più grandi (non solo) western di tutti i tempi, per divenire un’opera dalla precisa anima filmica – a metà dall’essere elegia del western classico e al contempo sostenitrice della corrente innovativa. Un’opera quindi, capace di reggere non solo il confronto con lo “scomodo” predecessore, ma anche di saper camminare sulle proprie gambe.
In tal senso, l’El Dorado di Hawks nasce in un momento cruciale per il cinema western. Ford ha appena appeso il cinturone al chiodo con Il grande sentiero (1964), Leone ha portato a compimento la rivoluzione filmica della Trilogia del dollaro (1964-1966) de Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono il brutto il cattivo; Peckinpah è prossimo a suonare la “riscossa americana” de Il mucchio selvaggio (1969). Forze conservatrici e rivoluzionarie che trovano ispirazione, rimandi, omaggi e invenzione, nel concept del racconto della Brackett e Hawks e nel volto di John Wayne, il simulacro dell’eroe western americano a cavallo delle decadi e testimone del cambiamento.