Bastardi senza gloria recensione del film di Quentin Tarantino con Brad Pitt, Christoph Waltz, Mélanie Laurent, Diane Kruger, Michael Fassbender ed Eli Roth
Dall’epica in due parti di Kill Bill Vol. 1-2 (2004), Quentin Tarantino ha inaugurato il cosiddetto Mondo del Film quello in cui “le convenzioni e i cliché cinematografici vengono abbracciati in maniera quasi feticista; al contrario del mondo di Pulp Fiction (1994), in cui la realtà si scontra con le convenzioni filmiche”. In tal senso quindi, il leoniano Bastardi senza gloria (2009) s’inserisce nel filone del Secondo Tarantino, quello dall’altra parte dello schermo; un giocare con il cinema e le sue narrazioni ed estetiche, e perfino provare a rileggere la storia. O perlomeno provarci, l’opera di Tarantino si caratterizza infatti per dei falsi storici non indifferenti; dalla climax al fato del Boia di Praga – tuttavia funzionali per lo sviluppo del racconto.
Candidato nel 2010 a 8 Premi Oscar tra cui Miglior film e Miglior regia, e vincitore del Miglior attore non protagonista; il Bastardi di Tarantino è tra le più interessanti e fulgide opere ucroniche dell’ultimo ventennio di cinema americano. A partire dalla dicitura con cui il cineasta italo-americano ne parlò in occasione di un’intervista a La Repubblica nel 2004:
“Si tratta di “Inglorious Basterds“, su cui lavoro da anni. È ambientato al tempo dello sbarco americano in Normandia, ma è in sostanza uno spaghetti western nella Francia occupata dai nazisti.”
Tra narrazione e innovazione, nel segno di Quel maledetto treno blindato
Una natura narrativa certamente originale, che a delle ispirazioni evidenti al cinema di John Sturges de La grande fuga (1963) oppone un ancor più evidente rimando testuale e d’atmosfere a Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari; il cui titolo originale “all’americana” è, per l’appunto, The Inglorious Bastards. Nella narrazione di Tarantino, quindi, si mescolano tradizione e innovazione, cinema moderno americano e rilettura “all’italiana” – al pari de Il cavaliere pallido (1985) per il western tra Stevens e Leone; valorizzando così il processo creativo e la figura di un Castellari che al pari di Corbucci, ha dato una precisa impronta al cinema italiano per mezzo di b-movie spesso poco celebrati, ma indubbiamente spontanei, vivaci e innovativi.
Con Bastardi senza gloria, soprattutto, si apre un’ipotetica trilogia storica comprendente il dittico western di Django Unchained (2012) e The Hateful Eight (2015) – che nei piani originali sarebbero dovuti essere due film direttamente collegati – e C’era una volta a Hollywood (2019).
Nel cast figurano Brad Pitt, Christoph Waltz, Mélanie Laurent, Diane Kruger, Michael Fassbender; e ancora Eli Roth, Til Schweiger, B.J. Novak, Daniel Bruhl, August Diehl e Julie Dreyfus.
Bastardi senza gloria: sinossi
1941, nella Francia nazista, il Colonnello Hans Landa (Christoph Waltz) soprannominato Il cacciatore di ebrei, ha appena sterminato la famiglia di Shoshanna Dreyfus (Mélanie Laurent); la giovane ebrea fugge, scampando miracolosamente da morte certa grazie a un rigurgito di magnanimità dell’assassino tedesco.
1944, il tenente Aldo “L’Apache” Raine (Brad Pitt) assemblea una squadra speciale di otto uomini ebreo-americani chiamati i Bastardi; l’obiettivo della squadra d’azione è di fare lo scalpo ad ogni nazista sul loro cammino. Tra questi figurano Donnie Donowitz (Eli Roth) soprannominato L’Orso Ebreo, noto per le uccisioni con la mazza da baseball; e Hugo Stiglitz (Til Schweiger) che uccide soltanto Ufficiali della Gestapo: ben tredici finora. Nel frattempo, Shoshanna è “rinata” come proprietaria di un cinema francese; l’incontro con l’attore tedesco (e ufficiale nazista) Friedrich Zoller (Daniel Bruhl) riaprirà vecchie ferite, e a quel punto Shoshanna ideerà un piano geniale per prendersi la sua rivincita sul Reich Tedesco.
Tra Ford e Leone: l’incipit di Bastardi senza gloria
Una panoramica rievocante l’apertura di racconto de Gli spietati (1992) di un uomo al centro esatto della scena che taglia un ceppo; una casa curata e delle mucche a pascolare. Una donna stende i panni; un campo lunghissimo di un auto dal rombo poderoso, che s’avvicina a grandi falcate – sulle note di una Per Elisa con contaminazioni da sonorità western leoniano. L’uomo ordina a quelle che sembrano essere le figlie di rientrare in casa, si asciuga la fronte. Tra un primo piano del volto sudato e un controcampo in campo medio, poggia il piede su suolo francese l’Hans Landa di Waltz; in un incedere con passo audace, tra un gesticolio e una familiarità mefistofelica.
Un dettaglio strategico su una stretta di meno tenace; un baciamano; e un’adulazione con cui mettere i La Padite a loro agio. Tra un bicchiere di latte e del silenzioso terrore nei volti delle figlie infatti, Landa prende a morsi la scena; illuminato unicamente da modi apparentemente garbati, e un fascio di luce che è omaggio a Quarto potere (1941). Si apre così il racconto di Bastardi senza gloria con cui Tarantino ci presenta Landa attraverso un delicato e graduato elemento dialogico di presentazione scenica “riflessa”. È la fama infatti, a precedere l’Hans Landa di Waltz, a partire dal suo ruolo nel contesto storico, sino al suo scopo narrativo da Ufficiale delle SS.
Tra una biro ricostruita opportunamente, e un catalogo, Tarantino costruisce così la dimensione scenica del Landa di Waltz, “il cacciatore di ebrei”; in quella che il regista opera infatti, come una sorta di rilettura del bounty-killer leoniana, inquadrato però in un contesto scenico bellico – rievocante i sopracitati war movie anni Sessanta di Sturges. Attraverso una regia fluida, Tarantino gioca ora con la fissità scenica di un elemento dialogico da kammerspiel, ora con i piani della casa; in un abile raccordo con cui arricchire di senso l’intera sequenza e il ruolo scenico di Landa. Così facendo, tra pipe accese e mani che tappano bocche, Tarantino realizza un piccolo gioiello di suspense corroborato da incisive linee dialogiche come:
“Ora, se si dovesse determinare quale attributo il popolo tedesco abbia in comune con un animale; sarebbe l’istinto astuto e predatorio di un falco. Ma se si dovesse determinare quali attributi gli ebrei condividano con una bestia, sarebbero quelli del ratto.”
Espediente attraverso cui il cineasta italo-americano fa accrescere la dimensione arguta del suo agente scenico, ora facendolo dissociare del tutto dal suo partito e Goebbels, ora teorizzando su soprannomi, scoiattoli e ratti. L’intera sequenza d’apertura raggiunge il punto di rottura per mezzo di un campo e controcampo di primi piani lentamente zoomati; così facendo, Tarantino getta la maschera del suo magnifico interprete, rivelando la sua natura di cacciatore spietato. Una farsa sagacemente costruita di fucili mitragliatori sul pavimento, che trova la sua climax in un formidabile scorcio fordiano. Un omaggio a Sentieri selvaggi (1956) permette alla Shoshanna della Laurent di correre verso la libertà.
Le sfumature di racconto tra revenge e war movie
Nella sacralità di un colpo a lunghissima gittata, tra pianti, fango e un “Au revoir”, Tarantino getta le basi drammaturgiche di un (altro) revenge movie al femminile; determinando così lo sviluppo di una struttura narrativa episodica a doppio arco, che tra primo e secondo capitolo, dipana le sue linee di racconto. Un allargare le maglie scenico-relazionali, con cui Tarantino rende infatti funzionale al contesto scenico e alle sfumature di racconto di Bastardi senza gloria; declinando così non soltanto la dimensione revenge nella ratio scenica della Shoshanna della Laurent, ma anche l’epica bellica a là Quella sporca dozzina (1967) incarnata negli scenici Bastardi.
Se tutto il primo capitolo è così servito per realizzare un tridimensionale villain, il secondo si oppone, infatti – necessariamente – nella dimensione scenico-caratteriale; rileggendo l’epica bellica sturgesiana, attraverso gli otto Bastardi – quattro in meno della Dozzina, ma uno in più de I magnifici sette (1960). Ma soprattutto nel delineare i contorni dell’Aldo “l’Apache” Raine di Pitt. Rilettura dell’archetipo del fiero Capitano americano che verosimilmente Tarantino va a configurare sulla base del Major Reisman di Marvin – colorandolo di un’appartenenza comanche. La presentazione della dimensione scenica dei Bastardi, tra primissimi piani squadrati e campi medi, permette al cineasta di riequilibrare anche come ratio scenica; in un battaglione di soldati ebrei-americani che vanno ad annientare Il cacciatore di ebrei:
“Sono il tenente Aldo Raine e sto mettendo insieme una squadra speciale; e mi servono i miei otto soldati. Otto soldati americani e ebrei. Avete sentito tutti di una imminente operazione militare, be’, noi partiremo un po’ prima. Ci lanceremo in Francia, in abiti civili. Una volta che saremo in territorio nemico, come guerriglieri in agguato alla macchia, faremo una cosa e una sola: uccidere i nazisti.
Ora non so voi ma io sicuro come l’inferno non sono sceso dalle Smoky Mountains; non ho attraversato cinquemila miglia d’acqua; non ho combattuto per mezza Sicilia per buttarmi da un aeroplano del cazzo e dare ai nazisti lezioni di umanità. I nazisti non hanno umanità.
Attraverso un sagace raccordo scenico, tra scalpi e colore narrativo, Tarantino si reinventa Lubitsch e rilegge, come fece Brooks nel 1967, anche lui il Fuhrer; in una conformazione fisica – e negli intenti dissacranti – che rievoca, e non poco, l’Hitler de Vogliamo vivere! (1942). Espediente con cui il cineasta italo-americano, agisce ancora una volta presentando “di riflesso”, tra digressioni temporali e leggende viventi; equiparando e potenziando così del tutto la dimensione mitica di “eroi” e “villain”.
L’esaltazione di un simile momento filmico di caratterizzazioni sporche e leoniane, arriva con l’Orso Ebreo di Roth. Tarantino gioca con l’epicità dell’intera sequenza, in una colonna sonora “da Spaghetti” operando di campi e contro campi; piani medi e primi piani sfalzati – giustificando, testualmente, i soprannomi “da battaglia”.
Il taumaturgico potere della settima arte secondo Quentin Tarantino
Lo sviluppo del racconto di Bastardi senza gloria, si caratterizza così della reintroduzione scenica della Shoshanna della Laurent sotto mentite spoglie. Attraverso cui Tarantino “colora” la sfumatura narrativa del revenge movie, ora di una delicata componente romantica; ora di un’esplicitazione del potere taumaturgico dell’arte per mezzo di chiacchiere cinefile tra Max Linder e Charlie Chaplin; il ritmo scenico de Il monello (1921) e Pizzo Palù (1929) in tempo di occupazione tedesca. Espediente sagace, con cui il cineasta arricchisce di valore la componente narrativa del racconto; giocando tra revenge e war movie, in un incedere parallelo, dal ritmo graduato, con cui alzare la posta in gioco tra strudel con panna e “numeri tre” – in un progressivo incrocio degli archi paralleli.
Il dispiego dell’intreccio scenico permette infatti a Tarantino di affondare le radici narrative nella storia giocando così con la connotazione cinefila del racconto. A partire dal “padre della propaganda” Joseph Goebbels di Groth; al ruolo di Ufficiale/critico cinematografico del Hicox di Fassbender; e ancora la Von Hammersmark della Kruger – rilettura tarantiniana della Dietrich; l’agente scenico del Zoller di Bruhl e Il Sergente York (1941) del cinema propagandista tedesco: il fittizio Orgoglio di una nazione.
Sulle note de Cat People (Puttin Out Fire) di David Bowie, Tarantino porta a compimento l’arco di trasformazione scenica della Shoshanna della Laurent gettando le basi per la climax. Attraverso una totale costruzione della sua dimensione scenico-mitica tra dettagli di rossetto sulla labbra; degli occhi; e una retina davanti al volo, con cui vestire Shoshanna dei colori della svastica nazista. Espediente con cui Tarantino carica di significato la climax e il sopracitato incrocio, caratterizzandolo così di una regia fluida che amplia i confini dell’arena scenica; nella valorizzazione di un gioco di detto/non detto d’intenzioni sceniche quasi hitchcockiano; di buffo italiano maccheronico; e riletture tarantiniane di momenti topici de Cenerentola (1950).
Il cinema rilegge la storia: Il Mago di Oz di Shoshanna
Tutti eventi con cui arricchire si la climax, ma anche depotenziare le componenti dell’enorme mole narrativa di Bastardi senza gloria; in un’offrire tante soluzioni sceniche allo spettatore, che Tarantino progressivamente butta giù a favore de La vendetta della faccia gigante. Espediente funzionale, quindi, al fine di alzare la posta in gioco, favorendo così non soltanto il compimento la componente revenge; ma anche nel mostrare le sfaccettature diplomatico-opportuniste del Landa di Waltz – che vanno però ad opporsi, alla componente ontologica dei Bastardi.
Una pizza cambiata; una porta sbarrata; della dinamite innescata e trecentocinquanta bobine pronte a prendere fuoco. La forza intrinseca di Bastardi senza gloria, sta nello straordinario momento filmico in chiusura di racconto. Il quartier generale nazista che si compiace alla vista della “risposta tedesca a Il sergente York” e infine lo stacco di montaggio. Il volto di Shoshanna che invoca la vendetta ebrea; una sigaretta che vola; il fuoco divampa, i Bastardi irrompono e mitragliano Hitler e Goebbels. Attraverso la sua climax, Tarantino opera un falso storico d’autore, con cui il cinema riequilibra gli orrori della guerra e riscrive la storia.
Espediente che il cineasta italo-americano, saprà nuovamente declinare in C’era una volta a… Hollywood – seppur ponendo al centro della rilettura una dimensione più intima del conflitto; opponendo così al corpo crivellato di Adolf Hitler e la fine della Seconda Guerra Mondiale, il “continuare a vivere” di Sharon Tate, nemmeno mai sfiorata dalle atrocità della Famiglia Manson.
“Lo sai Utivich? questo potrebbe essere il mio capolavoro“
Capolavoro probabilmente no, specie se consideriamo che nell’opus della seconda parte di carriera, Tarantino ha saputo realizzare gemme del calibro di Kill Bill e C’era una volta a Hollywood; ma Bastardi senza gloria si caratterizza per un’evoluzione filmica non indifferente. Il cineasta italo-americano asciuga in parte il suo stile registico, e il tipico ritmo netto delle scene action di una regia fatta di zoomate veloci, lascia il posto a una costruzione dell’immagine più curata dal ritmo dosato rendendo il tono più austero e moderato.
Non manca chiaramente la vibrante violenza tarantiniana, ma a mutare è la resa scenica. Passando dai brillanti e genuini artifici narrativi degli esordi, a racconti dal respiro più maturo con cui rileggere i traumi e gli orrori della storia. Quella che viene definita come una flessione, altro che non è una maturazione; un’evoluzione della poetica registica con cui Tarantino rende omaggio al cinema e ai suoi idoli.