48 ore recensione del film di Walter Hill con Nick Nolte, Eddie Murphy, Annette O’Toole, Frank McRae e James Remar
Il cinema di Walter Hill è senza dubbio tra i fiori all’occhiello di quel periodo di profonda rivoluzione narrativa e industriale affrontata dal cinema americano tra gli anni settanta e ottanta. Un cinema fatto di silenzi esistenziali di guidatori solitari come in Driver – L’imprendibile (1978); di western biografici come I cavalieri dalle lunghe ombre (1980); e di continue riletture dell’Anabasi di Senofonte (IV secolo a.c.) e dei suoi Diecimila, che Hill rielabora in forma postmoderna tra I guerrieri della strada (1979) e I guerrieri della palude silenziosa (1981). Un cinema narrativamente creativo quindi, che tra pietre miliari e vezzi artistici ha raggiunto il punto più alto – sul piano commerciale – con 48 ore (1982); cult movie intramontabile con cui Hill pone le basi del buddy cop grazie alla strana coppia Nick Nolte–Eddie Murphy.
In un cinema crime sempre più in evoluzione, caratterizzato da un ventaglio narrativo di opere dicotomiche come Il braccio violento della legge (1971) e Il lungo addio (1973), un’opera come 48 ore scuote le fondamenta del genere, a partire dall’opposizione tra due attori emergenti totalmente agli antitesi: Nolte di dichiarata formazione drammatica, con un paio di film (dimenticabili) alle spalle, e Murphy fresca new-entry del Saturday Night Live all’esordio assoluto sul grande schermo.
Per certi versi quindi, un’opera come 48 ore è il perfetto punto d’incontro tra innovazione e tradizione filmica. Un punto di partenza e d’arrivo spesso poco celebrato e adombrato da opere di maggior peso specifico che riflette appieno quel processo di ricodifica narrativa e “di audience”, che parte dal fiorire della New Hollywood. Quella fase di profonda rivoluzione culturale e industriale che ha portato all’emergere di cineasti visionari, sperimentali con cui reindirizzare il cinema e il suo linguaggio filmico verso un pubblico vivace, giovane, nuovo.
È il periodo di opere come Il laureato (1967); Bonnie & Clyde (1967) e Hollywood Party (1968); e ancora Fiore di cactus (1969); Bob & Carol & Ted & Alice (1969) e MASH (1970). Narrazioni brillanti, vive, che hanno poi portato a opere di ancora maggiore ambizione come L’esorcista (1973) e Frankenstein Junior (1974); Lo squalo (1975), Star Wars (1977) e Apocalypse Now (1979), giusto per citarne alcuni.
Nel cast figurano Eddie Murphy, Nick Nolte, Annette O’Toole, Frank McRae e James Remar; e ancora Sonny Landham, David Patrick Kelly, Jonathan Banks e James Keane.
48 ore: sinossi
Anni ottanta, San Francisco. Un pericoloso detenuto, Albert Ganz (James Remar) è appena evaso dai lavori forzati grazie all’aiuto del suo complice: Billy Bear (Sonny Landham). Lo scontroso e solitario poliziotto Jack Cates (Nick Nolte) e i suoi colleghi Algren (Jonathan Banks) e Vanzant (James Keane) incappano nel criminale evaso; ne consegue una sparatoria in cui i colleghi muoiono e Cates perde la sua arma d’ordinanza.
Inizia così un’indagine che è una corsa contro il tempo, in cui Cates si trova costretto a dover chiedere aiuto ad uno dei membri della banda attualmente in carcere: Reggie Hammond (Eddie Murphy). Ottenuto il rilascio per appena 48 ore, la società tra Cates e Hammond parte con il piede sbagliato, arrivando perfino a prendersi a pugni; con le ore in reciproca compagnia “sopportata” però, i due stabiliranno un solido legame riuscendo a venirne a capo.
Il Cane randagio di Walter Hill
Aperta campagna: mucche che pascolano, cavalli che si abbeverano. Degli avanzi di galera ai lavori forzati con cui citare la celebre inquadratura di riflesso de Nick mano fredda (1967); l’incedere della camera sul primo piano di un uomo che scopriremo poi essere il Ganz di Remar. L’arrivo di un automobile che è più un ammasso di ferraglia e ruggine che altro; una sparatoria dinamica; fiumi di sangue quasi peckinpahiani. Attraverso un linguaggio filmico semplice e immediato si apre il racconto di 48 ore. Espediente efficace con cui realizzare un’efficace presentazione dei contorni caratteriali del villain in pochi attimi.
Lo stesso nella presentazione dell’agente scenico di Nolte: quel Jack Cates poliziotto problematico di cui Hill pone da subito le basi caratteriali e di tipo relazionale. Una camicia sporca; una casa mai visitata; un primo piano in campo e controcampo tra Cates e la Elaine della O’Toole, e Hill ci presenta la criticità del rapporto tra i due agenti scenici. Ne emerge una dimensione caratteriale che è un po’ il simulacro degli stereotipi del cinema “di genere”. Il Cates di Nolte è infatti l’ennesima rilettura del poliziotto alcolizzato, fumatore accanito e cocciuto, in combutta con i colleghi, infelice del suo “lavoro di me*da” che straccia le multe ma tremendamente competente.
Lo sviluppo del racconto conferma gli intenti del Walter Hill regista veloce, ora attraverso piani sequenza fluidi alla stazione di polizia, ora in una crescita della posta in gioco esponenziale – resa possibile da un montaggio netto, vivace, compiuto. In un incedere parallelo che nel comporre l’intreccio narrativo permette a Hill di completare la caratterizzazione del Ganz di Remar delineandone una backstory funzionale, realizzando così il primo turning point con lo stesso Cates di Nolte.
Espediente attraverso cui Hill codifica un’efficace opportunità di racconto, preparando il terreno con cui giustificare l’ingresso scenico del sopracitato Hammond di Murphy e delineare la dinamica relazionale che altro non è che il cuore narrativo di 48 ore. Nel solco del sopracitato I guerrieri della strada anche 48 ore si muove in un terreno narrativo fortemente derivativo; il cineasta de Strade di fuoco (1984) rilegge infatti il topos della “pistola rubata” codificandolo in forma postmoderna in una dinamica fortemente – e dichiaratamente – rievocativa de Cane randagio (1949) di Akira Kurosawa.
48 ore: la codifica filmica del buddy cop movie
È nel secondo atto infatti che Hill costruisce la relazione tra Cates e Hammond. Agenti scenici agli antipodi. Un poliziotto veterano in coppia con un avanzo di galera, con cui trasportare l’uno nel mondo straordinario dell’altro tra scazzottate nomignoli razzisti e una fiducia che cresce di ora in ora. Un lavoro sagace quello compiuto da Hill sulla narrazione di 48 ore, Cates e Hammond sono infatti opposti e complementari; codificando così quella che sarà la grammatica filmica del genere buddy cop la cui unica e vivace rappresentazione fino a quel tempo è da ricondursi al serial da piccolo schermo Starsky & Hutch (1975-1979).
L’espediente è vitale nell’economia del racconto di 48 ore, in uno sviluppo appena accennato della componente comica affidata al vivace (e dosato) Murphy, con cui realizzare un ibrido comedy-crime (più crime che comedy) che alza l’asticella della qualità di scrittura e innova (e crea) il genere.
Dialoghi incisivi, veloci, battute ficcanti, avvolte in un’atmosfera da crime consumato, di cui Hill ci fa saggiare odori e sapori tra inseguimenti sulle colline stradali di San Francisco; colonna sonora fusion jazz; locali chic e cupi piano bar; e una scena madre come quella nella Metropolitana che per ritmo e tempi è un assoluto gioiello del cinema di genere. Nella climax però, Hill asciuga quel che resta della componente comedy, rendendola praticamente nulla. Realizzando invece una sequenza che è puro cinema crime, perfino da neo-noir compassato, con cui giocare con atmosfere e i topoi.
Il fumo che esce dai tombini; primi piani sugli sguardi truci di Cates e Ganz; dettagli della canna della pistola: 48 ore si incanala nella sordida fanghiglia di un crime sporco e puro. Hill realizza così una sequenza che vive di suggestioni e di vivacità registica, amplificandone la portata e gli effetti con cui dispiegare uno stallo alla messicana decisamente (e pigramente) semplice. Il campo lungo di un Cates avvolto dalla nebbia; il controcampo di Ganz e Hammond; l’incedere di una spietata macchina assassina avvolta dalle luci al neon; uno sparo.
Tra le pagine più belle del cinema anni ottanta
In un periodo di profonda trasformazione produttiva e narrativa, 48 ore s’inserisce nel solco del cinema crime ponendo così le basi tematiche e stilistiche di quel sottogenere che farà le fortune di Beverly Hills Cop (1984), Arma letale (1987), Tango & Cash (1989) e Point Break – Punto di rottura (1991). A differenza delle sopracitate però, l’opera di Hill appare raffazzonata e incerta. In un’anima filmica divisa tra crime e comedy e in una componente buddy ancora acerba e mal calibrata. Nonostante queste perplessità però, 48 ore funziona, tanto da convincere Hill a realizzarne un sequel (infelice) quasi dieci anni più tardi. Funziona nello sviluppo della dinamica tra Cates e Hammond; nell’umorismo appena accennato; e nel finale aperto di una Cadillac azzurra in campo lungo che sembra quasi accantonare quel briciolo di romanticismo impiantato da Hill a favore della bromance.
Soprattutto però, 48 ore, ci ricorda di quell’epoca in cui era possibile realizzare un’opera compiuta in un minutaggio considerevole. Per le estetiche contemporanee, un simile concept vedrebbe una narrazione di almeno due ore, se non perfino due ore e mezza. Hill negli anni ottanta riusciva a realizzare il tutto in un’ora e mezza non lesinando in buoni sentimenti, spacconeria, violenza e umorismo. Il cinema action che piace e come dovrebbe essere, sempre.